La parabola di Salvini, da genio della politica a pippa padana

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2019-08-21

La crisi della Madonna ci lascia con un interrogativo di quelli davvero importanti: sono più ridicoli quelli che credono che Giuseppe Conte sia un grande statista perché dopo un anno si è svegliato e si è accorto che aveva come vice Salvini o quelli che ritengono il leader del Carroccio un mago della politica e della comunicazione?

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Ieri pomeriggio guardando la diretta del Senato o la Maratona di Mentana molti si sono accorti che Matteo Salvini non è un grande politico (qualsiasi cosa voglia dire in questa terza o quarta repubblica). Si sono accorti sentendolo parlare a Palazzo Madama che il ministro dell’Interno, Capitano e papà non è nemmeno un grande comunicatore. E certo non serviva vederlo in azione in questi quindici giorni per accorgersi che politicamente Salvini vale poco o nulla.

Affidereste un Paese ad uno che ha dovuto aspettare che Bossi venisse fatto fuori per diventare qualcuno?

Salvini è pur sempre uno che ci ha messo ventisei anni per arrivare ad avere un ruolo di governo (non è mai stato nemmeno assessore, eppure è dal 1992 che fa il consigliere comunale a Milano). Ora provate a pensare ad una persona che fa per ventisei anni lo stesso lavoro e non ottiene nessuna promozione, nessun avanzamento di avanzamento di carriera. Non dice nulla sul valore della persona (può benissimo essere un grande lavoratore, magari con poca ambizione) ma difficilmente dall’oggi al domani l’addetto alle pulizie della megaditta si può trovare dietro al tavolo di megadirettore.

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Ma, qualcuno dirà, la forza di Salvini non è tanto l’acume politico quanto la capacità di comunicare. Bene, non serviva nemmeno sentire il suo discorso al Senato (identico nei toni e nei temi ai comizi che tiene dal 2014) per capire che parla per frasi fatte, slogan, elenchi interminabili di nomi, cose, città. E insulti, ovviamente. Non mancano le mirabolanti promesse, come quella di una manovra da 50 miliardi di euro.

Il M5S e la Lega, due partiti di “rottura” che finiscono per rompersi le scatole

Eppure da qualche parte Salvini deve aver un suo specifico punto di forza. Altrimenti non si spiega come mai sia considerato il leader politico più importante del Paese (anche per mancanza di contendenti). Dirannno che è tutto merito della Bestia, di Morisi, dello staff della Comunicazione eccetera. Morisi invece direbbe che Salvini è un che è “naturale” non ha bisogno di trucchetti. Ma non è nemmeno quello. O almeno non lo è in questa fase politica iniziata il 1 giugno 2018.

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Ci sono due forze al governo: una è la Lega e l’altra una è un partito che è comparso nel 2013 in Parlamento (proprio mentre Salvini prendeva in mano il partito di Bossi) promettendo di parlare “per la gente, con la gente, come la gente”. Una forza rappresentata nell’immaginario dai vari Taverna, Sibilia e Di Battista gente come noi che parla come noi e non si nasconde dietro a “politicismi” e “tatticismi”. Ma ben presto quel partito, è diventato altro. Un corpo opaco dove comandano i burocrati della comunicazione (addio streaming e democrazia diretta), a loro modo “professoroni” della neolingua politica. Un partito con una struttura interna paradossale, ricca di bizantinismi, elevati, garanti, doppi codici etici, capi politici e tecnici informatici che votano su Rousseau.

Salvini e la reinvenzione della Lega

E per quanto si sforzino né Di Maio né Di Battista o Grillo (Casaleggio junior ha qualche difficoltà in più) sanno parlare “come la gente”. A questo aggiungete che quelli entrati in Parlamenti per aprirlo come una scatola di tonno hanno ben presto assimilato lo stile dei politici di professione. Il M5S che è un partito di “rottura” è stato incapace di essere di lotta e di governo, come chi? Come la Lega. E così i vari ministri pentastellati recitano, ma come sempre tra l’imitazione e l’originale l’elettore sceglie l’originale. Tra un partito che finge di essere “dal basso” ma è diretto da un tizio non eletto e il partito del Capo per molti è meglio il secondo.

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E Salvini il Capo del partito che sta con i pugni dentro al governo ed un piede fuori lo sa fare. Non certo per studio o per adattamento, è l’unica cosa che sa fare, da sempre. Usa un linguaggio tutto suo che è la sintesi della chiacchiera da bar, della signora che si lamenta al mercato (e viene intervistata dal Tg). Non è un parlare semplice e comprensibile, è un parlare vuoto e privo di contenuti ma ricco di suggestioni e violenza e paure. Salvini non conosce la vergogna, non tanto quella di baciare rosari, ma di essere lo specchio di quello che ha deciso sono gli italiani (i suoi figli appunto).

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Ma anche qui non si pensi che Salvini sia un genio per questo. Non ha inventato nulla, è esattamente il linguaggio e lo stile di Umberto Bossi (che diceva infatti che «la Lega sta con due piedi fuori dal palazzo, e con un pugno dentro»), appena appena reso attuale nei riferimenti spicci e ripulito dall’ideologia padana indipendentista. Magari sono stati stretti nuovi rapporti politici (in Russia, ad esempio) ma è un po’ come se ogni volta che ci mettessimo alla guida di un’automobile pretendessimo di aver inventato noi la ruota, o il motore a scoppio. Salvini ha avuto fortuna, che non guasta mai, perché il MoVimento chi gli ha messo contro? Giuseppe Conte, un avvocato, professorone (guardate i professori leghisti Bagnai e Borghi come si atteggiano invece), che parla come Don Abbondio e ne ha la stessa caratura morale. E in più si crede un principe del foro quando doveva essere la badante di Di Maio e il domatore di Salvini.

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