Come i 5 Stelle hanno intenzione di fare i “Salvini” del governo giallorosso

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2019-09-05

Dietro la nemmeno troppo nascosta “ritirata” del M5S da certe posizioni di potere si potrebbe nascondere una raffinatissima strategia (leggi: la stessa usata da Salvini) per riconquistare consensi e popolarità lasciando agli altri le decisioni più impopolari. Perché non è sempre vero che il potere logora chi non ce l’ha. Il trucco è sempre quello di Umberto Bossi: fare l’opposizione a sé stessi mentre si sta al governo

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La manovra, va detto, non è ancora stata capita dagli elettori del MoVimento 5 Stelle che infatti oggi ancora non si capacitano di quella che ai loro occhi sembra una resa a tutti gli effetti. Il Partito Democratico ha ottenuto 9 ministeri, alcuni di primaria importanza, il M5S, che ha il doppio dei voti in Parlamento “solo” 10, e poi c’è quel ministero dato a LEU. Per le truppe pentastellate è inconcepibile.

Sorpresa: adesso Giuseppe Conte è del MoVimento 5 Stelle

Va ricordato però che i ministeri non si contano, ma si pesano, come dice il vecchio adagio. E che anche nel precedente governo il rapporto era simile: otto dicasteri per il M5S e sei per la Lega (a cui vanno aggiunti i due vicepremier, figura oggi scomparsa). Detto questo è vero che ad una prima occhiata il M5S sembra aver perso qualcosa. Non ha il Ministero dell’Economia e delle Finanze, non ha il Ministero della Difesa, quello dell’Interno (che però è affidato ad una figura “tecnica”) e soprattutto non ha il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, quello che fu del concentratissimo Toninelli. D’altra parte i pentastellati mantengono il Lavoro e lo Sviluppo Economico (non più accorpati sotto un solo ministro), la Giustizia e soprattutto la Presidenza del Consiglio. Dopo la decisione di non nominare vicepremier ma un Sottosegretario (Riccardo Fraccaro) Palazzo Chigi è saldamente in mano ai 5 Stelle.

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E che Conte non sia una figura “terza”, “garante” o un Elevato – tutte parole per dire che non era un premier politico e che non era del M5S – non lo nasconde più nessuno. Ad esempio l’ex sottosegretario Manlio Di Stefano, rispondendo ai numerosi commenti di elettori indignati e delusi risponde «tutto Palazzo Chigi è del M5S e i ministeri più importanti pure». E poco più sotto ribadisce che «a Palazzo Chigi non c’è il PD mentre la Lega aveva Giorgetti». Questa è la vera vittoria: avere un PdC politico. Certo, a lungo andare potrebbe creare problemi per Di Maio ma non è detto che la Farnesina, una casella importante ma poco “visibile” non possa aiutarlo a recuperare consensi personali. In fondo a fianco di Conte c’è Fraccaro, uno dei suoi fedelissimi.

Perché il M5S ha “rinunciato” a certi ministeri?

Bisogna però guardare le cose in prospettiva e non solo così come sono ora. Ad esempio togliendosi i ministeri degli Interni, della Difesa e delle Infrastrutture (ci saranno sicuramente dei sottosegretari) il M5S si è levato anche un grosso problema, anzi due. Il primo è quello della gestione dei flussi migratori: ora in mano ad una figura “terza” che prevedibilmente farà da punching ball per le lamentele sia del PD che del M5S. Ma – come prevede il Decreto Sicurezza Bis – le decisioni sulla “chiusura dei porti” e sul divieto di ingresso alle navi delle Ong vanno prese di concerto con Difesa e Trasporti (sentito il Presidente del Consiglio, ma quello è inevitabile). In questo modo il MoVimento si riserva la possibilità di attaccare i ministri del suo stesso governo (ma dell’odiato PD) qualora il sentimento popolare per la nuova linea sui migranti non dovesse riscuotere consensi.

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Il secondo problema riguarda esclusivamente il Ministero di Paola De Micheli, quello dei Trasporti. Non essendo più un ministero a 5 Stelle toccherà al PD (nell’immaginario, perché poi le decisioni del Governo sono sempre collegiali) risolvere il nodo Alitalia, la questione dell’eventuale revoca della concessione ad Autostrade, andare avanti sulla TAV e su tutte le altre colate di cemento impostate da Toninelli (per tacere della promessa circa la ricostruzione del Ponte Morandi). Tutti dossier sui quali il M5S potrebbe avere buon gioco a dire “vedete, non siamo noi, sono i soliti del PD” oppure “quando c’eravamo noi certe cose non le avremmo fatte”. Ed il bello è che sarebbero ancora al Governo.

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Last but not least: il MEF. Per la prima volta dai tempi del governo Monti non affidato ad un tecnico indipendente (anche Padoan lo era al momento della nomina) ma ad un politico: Roberto Gualtieri del Partito Democratico. Anche qui il gioco è semplice e sarà lo stesso usato per Tria, con il vantaggio di poter attaccare contemporaneamente il PD. Se non ci sono i soldi per mantenere le promesse (non importa quanto mirabolanti) la colpa sarà del ministro del PD. Idem se ci saranno da fare tagli impopolari o aumentare le tasse. Da parte sua il M5S conserva il vantaggio “strategico” dei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, quelli da dove Di Maio ha abolito la povertà (chissà se ora sarà ripristinata) e lanciato il Reddito di Cittadinanza (che però di fatto ancora non crea lavoro e quello sarà un problema). Sembra proprio che il MoVimento 5 Stelle abbia assimilato la lezione dell’esperienza con la Lega e si prepara ad essere al tempo stesso un partito di lotta e di governo, nel solco della tradizione bossiana.

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Ci sono però due avvertimenti da fare: il primo è che non è detto che il giochino funzioni, a lungo andare attaccare il governo dove si esprime il Presidente potrebbe essere controproducente. A meno ovviamente di non puntare a limitare l’ascesa di Conte. Il secondo è tutto scritto nella frase che i neoministri (del PD e del M5S) hanno pronunciato oggi al momento del giuramento: «giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione». Interesse esclusivo del Paese, un potere che non deve essere esercitato al fine di accrescere consensi di questa o quella parte politica.

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