Il vaffa e il dito medio di Paragone al M5S

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2019-12-18

Rimasto a spasso, dopo aver usato la politica per fare il giornalista, usò il giornalismo per fare il politico: a fine settembre 2017 condusse la kermesse che incoronò Di Maio candidato premier e se lo portò dietro nella presentazione del suo sobrio libro «Gang Bank. Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita». Candidato nel listino. Eletto

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«Hanno voluto costruire un movimento basato sul vaffa. Se vorranno cacciarmi, lancerò loro il mio vaffa e gli aggiungerò anche il dito medio. Poi mi opporrò, questo è sicuro. Non gliela renderò facile, dovranno sudare». Gianluigi Paragone rivela oggi a La Stampa qual è la strategia che si cela dietro il comportamento del senatore ex direttore della Padania arrivato a candidarsi con i grillini. E così, dopo che ieri ha spodestato Di Maio dalla carica di Capo Politico, spiega che non vuole andarsene ma preferisce farsi cacciare.

Il vaffa e il dito medio di Paragone al M5S

In realtà Paragone dovrebbe essere già stato cacciato dal M5S perché non ha votato (insieme al senatore rampante Lello Ciampolillo che abbraccia gli alberi affetti da xylella) la fiducia al governo Conte BIS. Per lo stesso motivo è stato cacciato lo scorso dicembre il senatore Gregorio De Falco, eppure i cinque reprobi grillini (ci sono anche Mario Michele Giarrusso, Primo Di Nicola e Cataldo Mininno) sono ancora là, eh già, perché con alcuni le leggi si applicano, con altri si interpretano.

m5s voto di fiducia - 2

La Stampa spiega che qualcuno all’interno del MoVimento comincia a farsi domande:  «Le regole si rispettano – dice il capogruppo a palazzo Madama, Gianluca Perilli –. Adesso credo che verrà deferito ai probiviri». E in molti sostengono apertamente la necessità di cacciarlo. Di Maio però vuole aspettare e non è convinto di abbandonare il senatore. Meglio aspettare – ragiona il capo politico con i suoi – e vedere se il problema rientra». Meglio un senatore in più, che uno in meno. Specie di questi tempi. Dall’altra parte c’è Beppe Grillo: non parla mai della Lega, ma i tre transfughi grillini finiti tra le braccia di Matteo Salvini lo hanno preoccupato. Il comico vorrebbe comminargli la multa da 100 mila euro prevista nell’atto di candidatura con il Movimento. Ne ha discusso con Davide Casaleggio, presente anche lui alle assemblee dei parlamentari, ma tutti sappiamo che la clausola è una bufala. Lo sapeva anche il senatore grillo Ugo Grassi, che invece durante la campagna elettorale sosteneva che la punizione avesse senso ma quando è entrato in Parlamento ha cambiato idea e adesso sta nella Lega.

Gianluigi Bombatomica Paragone e la barzelletta dei probiviri

Gianluigi Bombatomica Paragone aveva promesso le dimissioni da senatore in caso di varo del governo M5S-PD, ma poi ci aveva ripensato. Qualche tempo fa Filippo Facci aveva tracciato un suo ritratto, che partiva dal fatto che oggi era contro i contributi pubblici dopo che il suo giornale – La Padania – campava proprio grazie ai contributi pubblici.

«Lo dicevo prima e posso ribadirlo adesso: i giornalisti italiani sono una casta», parole sue. E quando lo diceva, Paragone? Forse la prima volta che sentimmo parlare di lui: quand’era direttore della Padania, da immaginarsi con quale indipendenza (e con quali meriti fosse stato insediato) in un periodo in cui i giornali di partito non vivevano «anche» grazie ai fondi per l’editoria, ma solo ed esclusivamente grazie a essi. Poi che ha fatto, l’uomo che «lo diceva prima»?

Dopo il periodo probabilmente più libero della suavita (a Libero, appunto, quotidiano che già percepiva gli orribili fondi) il lottizzato Paragone, coi piedi in due caste, approdava dal niente alla vicedirezione di Raiuno e alla conduzione di sbracatissimi programmi tipo «Malpensa, Italia» (poteva chiamarlo direttamente «Gemonio, Italia», a quel punto) e inaugurava quella che a parere dello scrivente è la serie di talkshow più brutti, squallidi, volgari e arruffapopolo che avevamo mai visto. Poi, passando d’un tratto alla direzione di Raidue per logiche sicuramente molto professionali, e soprattutto annusata l’aria che tirava, cercò di ri-verginarsi annunciando «mi dimetto da giornalista di centrodestra» e intensificando la caciara di puntate titolate, per esempio, «Politici, ora basta!».

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Si mise l’orecchino e cominciò a introdurre le puntate suonando la chitarra. Una sera, in diretta, meritò il commento del compianto Giorgio Straquadanio: «Paragone si sta già preparando il futuro». E tu prova a smentirlo. Paragone ci provò: «La Rai non è della politica», rispose. No, infatti: la Rai è dei partiti. Intervistato dal Corriere, disse: «La mia è una trasmissione di rottura disordinata, io non ho le idee chiare, non è populismo, forse è anarchia, è il disordine che viene dal fatto che non riesco più a trovare un senso o un ordine a quello che sto vivendo».

E siamo perfettamente d’accordo con lui. Ma adesso andiamo veloci,sennò si fa noiosa: d’un tratto diventò amicissimo di Urbano Cairo e Diego Della Valle ed ecco «La gabbia» su La7, l’antisistema come estetica, l’antieuro come missione, le teorie del complotto come fondali. Diventò l’idolo dei deficienti no vax. Sinché venne cancellato dal nuovo direttore di rete.

Rimasto a spasso, dopo aver usato la politica per fare il giornalista, usò il giornalismo per fare il politico: a fine settembre 2017 condusse la kermesse che incoronò Di Maio candidato premier e se lo portò dietro nella presentazione del suo sobrio libro «Gang Bank. Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita». Candidato nel listino. Eletto. A quel punto mancava solo un suo blog sul Fatto Quotidiano. Fatto.

Leggi anche: Gianluigi Paragone annuncia che Di Maio non è più Capo Politico del M5S

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