Il fallimento dell’asta BtP Italia: l’anticamera del terrore in arrivo a gennaio

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2018-11-23

Ieri si è registrato il peggior collocamento di Btp dal giugno 2012, ovvero dalle settimane del contagio greco. Ma il pericolo maggiore arriva nel 2019

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I Btp Italia sono titoli di Stato pensati per i piccoli risparmiatori, che assicurano il recupero dell’inflazione più un premio di rendimento. Per questo vengono offerti ai privati prima che agli investitori istituzionali e per questo l’andamento dell aste su questi strumenti finanziari viene spesso monitorato per comprendere la percezione del rischio di un paese. E ieri, a conclusione dell’ultima asta di Btp Italia, si è registrato il peggior collocamento di Btp dal giugno 2012, ovvero dalle settimane del contagio greco. Il titolo con scadenza novembre 2022 ha raccolto 1,3 miliardi dagli investitori istituzionali per un totale di appena 2,16 miliardi, contro una previsione di 7-8 miliardi. Un fallimento che è evidentemente causato dal panico in continua diffusione sui mercati per i conti dell’Italia e per la crescita dello spread, che il governo gialloverde non ha ancora trovato il modo di fronteggiare se non con la tattica del rimanda, rimanda cara ai democristiani. Il punto però non è il 2018, visto che ormai gran parte del fabbisogno di liquidità è coperto. Il vero problema è il 2019. Le emissioni previste il prossimo anno sono nell’ordine dei 400 miliardi di euro. Escludendo i BoT ci sono 260 miliardi di nuovi titoli da emettere a fronte di scadenze per 200 miliardi di euro. E da maggio 2018 in poi – ha certificato Bankitalia – gli investitori istituzionali hanno ridotto la loro esposizione in BTp di 68 miliardi di euro. Un vero e proprio esodo come non si vedeva dal 2011-2012 che è stato compensato in parte della BCE, la cui esposizione in BTp è cresciuta di 16,4 miliardi da maggio, e soprattutto dalle istituzioni finanziarie domestiche che hanno aumentato i BTp in portafoglio per 73,6 miliardi.

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BTP Italia, le aste negli ultimi anni (La Repubblica, 23 novembre 2018)

E non è un caso che sia maggio 2018 la data di partenza: all’epoca uscì la famosa bozza del contratto di governo che prevedeva il referendum sull’euro che poi, complice anche la scelta di Savona come ministro dell’Economia, diede il via a un buon numero di retroscena sulle intenzioni, mai nascoste prima da parte di interi settori della maggioranza gialloverde, di portare l’Italia fuori dalla moneta unica. La Manovra del Popolo e i richiami di Bruxelles, che l’esecutivo Conte ha pateticamente tentato di addossare ai governi precedenti, è la ciliegina su una torta che rischia di diventare indigesta non per la Lega o per il M5S, ma per tutta l’Italia. E così, mentre si rincorrono voci (non si sa se vere o false) sulle dimissioni di Savona, non stupisce che nei resoconti si dipinga il ministro come pronto ad andarsene prima delle aste di gennaio: ricorda oggi Andrea Franceschi sul Sole 24 Ore che nel 2019 verrà a mancare il supporto della Bce che a dicembre smetterà di acquistare titoli nell’ambito del Qe e, con un contributo minore da parte dei fondi esteri e la freddezza manifestata fin qui dai risparmiatori retail, l’unica opzione rimasta (escludendo l’improbabile contributo di Paesi solidali alla causa sovranista come la Russia di Putin) è che il fardello ricada sulle istituzioni finanziarie domestiche. L’esposizione in BTp delle “main financial istitution”(gli istituti più grossi) è ampia ma in diminuzione proprio a causa del diverso valore dei Titoli di Stato. Qualcuno, come Generali, ha già annunciato l’intenzione di diminuire le quote in portafogli. Lo scenario che comincia a farsi sempre più reale per gennaio è quello dei flop nelle aste dei titoli di Stato. L’anticamera del dramma.

Leggi sull’argomento: Le dimissioni (non annunciate) di Paolo Savona

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