Arcelor Mittal, l’ILVA da chiudere e la scusa dello scudo penale

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2019-11-05

Gli indiani hanno annunciato di voler recedere dall’acquisto perfezionato un anno fa a causa dello scudo penale che il Parlamento ha cancellato. Ma dietro la loro decisione c’è un problema industriale: l’eccesso di offerta di acciaio nel mondo. ArcelorMittal aveva proposto un piano di esuberi da 5mila lavoratori al governo prima di decidere l’addio

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Anticipato da un articolo del Sole 24 Ore, l’annuncio di Arcelor Mittal sulla chiusura dell’ILVA è arrivato ieri puntuale dopo le minacce della scorsa settimana sui cinquemila lavoratori da mandare a casa a causa del calo di prezzo dell’acciaio. Gli indiani hanno annunciato di voler recedere dall’acquisto perfezionato un anno fa a causa dello scudo penale che il Parlamento (con voto della maggioranza composta da M5S, PD, Italia Viva e LeU) ha evitato di ripristinare dopo la sua cancellazione voluta dal governo Conte One appoggiato dalla Lega.

Arcelor Mittal, l’ILVA da chiudere e la scusa dello scudo penale

Ora il governo comincia a muoversi in ordine sparso tra chi, come il MoVimento 5 Stelle, si vanta del risultato ottenuto e immagina battaglie legali contro ArcelorMittal per costringerla a fare industria a Taranto e chi, come Matteo Renzi, ha in tasca la soluzione di una cordata alternativa con Jintal e Cassa Depositi e Prestiti che porterebbe al grande ritorno delle Partecipazioni Statali nell’Acciaio di Stato, visto che l’odierna Ilva era sino al 1995 l’Italsider di Stato, arrivando ad occupare anche 25mila dipendenti nel periodo d’oro. Fu privatizzata dal primo governo di Romano Prodi con la vendita al Gruppo Riva, provocando non poche polemiche perché il prezzo pagato sembrò risibile: avvenne con la «girata» delle azioni (pari al 100% del capitale) a un prezzo di 2.500 miliardi di lire, per una valutazione complessiva della società di circa 4.000 miliardi di lire, secondo quanto fu rese noto dall’Iri.

quanto pesa ilva sull'economia italiana
Quanto pesa l’Ilva sull’economia italiana (Corriere della Sera, 5 novembre 2019)

Quello che però sembra sfuggire agli alfieri della Soluzione di Stato per ILVA, che evidentemente sono gli stessi che vogliono bere limoncello sui voli Alitalia che brucia un miliardo di euro di soldi pubblici, è che se l’ILVA fosse un affare gli indiani se la terrebbero. Subito dopo l’arrivo di Lucia Morselli al timone dell’azienda infatti si era capito che qualcosa non andava nella questione e che il punto non fosse più lo scudo penale: alcuni retroscena hanno raccontato che l’eccesso di produzione di acciaio in Europa stava portando Arcelor Mittal a prevedere un dimezzamento degli obiettivi produttivi a Taranto: da 8 milioni a circa 4 milioni. Ma in tutto il mondo c’è un eccesso di offerta: circa 550 milioni di tonnellate. Con una riduzione drastica dell’attività appariva inevitabile un taglio anche della forza lavoro: erano previsti dai 4 mila ai 5 mila esuberi.

ArcelorMittal e quell’ILVA di troppo nel piano industriale

It’s the economy, stupid, insomma: l’azienda aveva (e attualmente ancora ha) in mano un accordo assai oneroso: erano previsti investimenti per 2,4 miliardi. Investimenti che dovevano essere garantiti da una produzione da 6 milioni di tonnellate annue, che dovevano arrivare fino a otto. Oggi Ilva non riesce ad andare oltre le quattro, anche perché due degli altoforni sono chiusi per i lavori di ambientalizzazione (e un terzo era stato fermato dalla Procura). Così, hanno detto ieri i vertici di Arcelor al ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli, non si può andare avanti. Il ministro aveva capito perfettamente quanto la questione fosse delicata, così come lo aveva capito il collega Provenzano. Ma nessuno di loro ha aperto bocca fino allo scoppio della bomba di ieri.

luigi di maio immunità penale ilva - 4

Insomma, per l’acciaio a Taranto la situazione è grigia a prescindere dallo scudo penale che la politica italiana ha eliminato e dalle inchieste della magistratura sugli altoforni: semplicemente, come per Whirlpool, attualmente la produzione non è sostenibile per ragioni di prezzo del bene prodotto (l’acciaio) e un piano di esuberi lacrime e sangue che porterebbe a un dimezzamento della forza lavoro di Taranto non è sostenibile per ragioni politiche. Un perfetto dilemma del prigioniero dal quale non si esce se non impegnando i soldi degli italiani in una soluzione che rischia di mandarli in fumo (anche se forse troverebbe un senso industriale nel medio periodo). Giorgio Meletti sul Fatto Quotidiano di oggi riporta indietro le lancette dell’orologio a quando nel 2012 i giudici sequestrarono l’ILVA ai Riva:

C’era da prendere una decisione: o rilanciare l’Ilva whatever it takes, perché un grande paese industriale deve avere il suo acciaio, o chiuderla salvando almeno la salute dei tarantini. Non era complicato:sarebbe bastato chiamare le cose con il loro nome e parlarne. Ma era chiedere troppo a una classe politica di vigliacchi e a una classe imprenditoriale di profittatori. Nessuno si è distaccato dalla losca abitudine di prendere per i fondelli i cittadini, girando intorno al problema per non assumersi una responsabilità. Questo vale per Monti e i suoi successori: Enrico Letta,Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte uno e due. Vale per Passera e  i suoi successori: Flavio Zanonato, Federica Guidi, Carlo Calenda e Luigi Di Maio. E vale per i politicanti che hanno fatto solo dichiarazioni e i sindacalisti che hanno solo chiesto tavoli.

Tutti insieme si sono baloccati con l’idea di far salvare l’Ilva da Arcelor Mittal, leader mondiale di un mercato in crisi nera. Gli è stato spiegato in ogni modo l’ovvio: Arcelor Mittal voleva solo tenere l’Ilva azzoppata in attesa di ammazzarla non appena se ne fosse presentata l’o c c a s i one (e la rinomata cultura di governo del M5S gliel’ha offerta con scandalosa solerzia). Fingendo di accapigliarsi sui dettagli, hanno fatto passare sette anni durante i quali, beffa delle beffe, l’Ilva ha continuato a inquinare e uccidere a spese del contribuente. Se esiste un Dio dell’industria, si meritano tutti l’inferno.

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