Fact checking
Lo sconto di Salvini e Di Maio all’Europa
di Alessandro D'Amato
Pubblicato il 2018-11-26
Il governo propone di recuperare 3,4 miliardi dalla Manovra del Popolo per dedicarli all’abbassamento del deficit/PIL programmato, che così andrebbe al 2,2%. L’argomento della guerra a Bruxelles sembra aver perso tutti i suoi fans tra gli eletti della maggioranza. Certo, molti si sono fatti eleggere proprio grazie a questa promessa. Ma questo ormai rischia di essere ormai un dettaglio
Due decimali di punto valgono 3,4 miliardi di euro su un totale di 22 di spesa in deficit e di 37 totali per la Manovra del Popolo. Non è poco, ma anche se davvero il governo Lega-M5S è disposto a “scontare” dal Deficit/PIL al 2,4% la cifra per venire incontro alla Commissione Europea ed evitare o posticipare la procedura d’infrazione, non è detto che basti.
Lo sconto sulla Manovra del Popolo
Eppure ieri è stata considerata una svolta da tutti i commentatori politici l’annuncio sincronizzato di Salvini e Di Maio sui decimali a cui non vale la pena impiccarsi, un segnale preciso sul tabù che finora sembrava insuperabile nella battaglia di parole ingaggiata da Lega e MoVimento 5 Stelle nei confronti dell’Unione Europea. Il modo in cui si “risparmieranno” decimali di PIL è il rinvio alla primavera delle due misure più costose, ovvero Quota 100 e reddito di cittadinanza. I soldi sono meno dei 5 miliardi di cui aveva parlato Conte al tavolo con Juncker sabato sera, ma proprio per questo si immagina che siano frutto di una mediazione con la maggioranza e non il risultato di una fuga in avanti del premier. Ma c’è una pista alternativa: ovvero rimanere al 2,4% ma spostare i soldi agli investimenti.
Come cambieranno le due misure lo spiega oggi Valentina Conte su Repubblica:
Si comincia a dire che sarà a tempo, 18 mesi rinnovabili per altri 18, dopo aver superato una verifica intermedia. E che 3 mensilità – 6 nel caso di una donna – andranno alle imprese che assumono il percettore di reddito. Anche i requisiti sono oggetto di ripensamento. Il limite Isee, fissato a 9.360 euro, è molto generoso. Al punto che l’assegno può finire a famiglie anche con 20 mila euro di reddito, non ricche ma neanche del tutto bisognose. Ecco che si prova a rafforzare i paletti: il possesso o meno di una casa, i soldi in banca, altri patrimoni.
Anche i coefficienti che moltiplicano l’assegno base da 780 euro per un single con la casa in affitto – altrimenti 480 euro, se vive in casa di proprietà – saranno rivisti. Alla fine una famiglia di quattro persone con due figli minori intascherebbe 1.400 euro al massimo, anziché 1.600. Persino le tre offerte di lavoro – che la Lega vorrebbe ridurre a due – da proporre prima di revocare il reddito, se rifiutate, sono oggetto di una certosina ridefinizione. Tanto più perché rappresentano l’unico discrimine tra una misura di pura assistenza e uno strumento di riattivazione.
Quota 100 e reddito sacrificati sull’altare dell’euro
Per quanto riguarda quota 100 le uscite del 2019 saranno dunque molto meno degli aventi diritto (330-340 mila, di cui 120 mila statali). Ma nel 2020 il boom delle domande porterà ad un eccesso di spesa tale che il governo potrebbe limitarle con le graduatorie. Un meccanismo a rubinetto che, seppur smentito, traspare dai numeri. Lo ha spiegato il presidente Inps Tito Boeri: quota 100 è finanziata sempre con la stessa cifra, per tutti e tre gli anni della manovra (7 miliardi). Come fosse un esperimento valido solo nel 2019 e poi trascinato. Ecco dunque che “finestre” e paletti agevolano la trattativa con l’Europa, ma minacciano i conti futuri.
Nel testo, in tempi non sospetti, il governo aveva già inserito una sorta di “clausola di salvaguardia”che permette di spostare da reddito a pensioni (e viceversa) i risparmi ottenuti. Ma nel caso in cui da entrambe le riforme dovessero emergere risparmi, spiegava in maniera un po’ contorta il provvedimento, i minori costi avrebbero potuto essere dirottati alla riduzione del deficit.
Ma l’Europa ci casca o non ci casca?
Ora la questione è se a Bruxelles accetteranno o meno la proposta del governo italiano. Che per adesso è del tutto virtuale visto che il piano non è stato illustrato nell’incontro a cinque di domenica in cui erano presenti Conte, Tria, Moscovici, Dombrovskis e Juncker. Il rischio, spiega oggi Marco Bresolin sulla Stampa, è che non basti:
Per quanto riguarda la «dimensione» del passo indietro, anche qui è difficile trovare qualcuno a Bruxelles che si sbilanci per dare una valutazione. Ma dalla Commissione sono sempre stati molto netti su questo fronte: la manovra comporta «una deviazione senza precedenti» dalle regole. Lo scostamento stimato rispetto alla «piena conformità» con il Patto di Stabilità è pari all’1,8% del Pil.
Anche con tutta la flessibilità e la buona volontà, diventerebbe veramente difficile per l’Ue accettare una correzione limitata allo 0,2% del deficit, che ridurrebbe soltanto minimamente il divario. La distanza resta notevole e in più occasioni Moscovici aveva detto di non essere disposto a incontrarsi a metà strada: è l’Italia dal suo punto di vista – che deve fare il passo più lungo. È anche vero, però, che – a fronte di un gesto di Roma – per la Commissione la vicenda diventerebbe più complicata da gestire sul fronte politico.
Certo, il punto di partenza della trattativa non sembra incoraggiante visti i sorrisi che la Merkel ha riservato alle frasi di Conte che raccontava come la Manovra del Popolo rivoluzionasse l’Italia. Ma già la scelta di Salvini e Di Maio dovrebbe cominciare a far riflettere chi immaginava un governo gialloverde pronto ad andare allo scontro all’arma bianca con Bruxelles. Mentre il professor Paolo Savona sembra battere sempre più in ritirata strategica sostenendo anche in pubblico le sue perplessità nei confronti delle scelte di spesa del suo governo, l’argomento dell’uscita dall’euro sembra aver perso definitivamente tutti i suoi fans tra gli eletti della maggioranza. Certo, molti si sono fatti eleggere proprio grazie a questa promessa. Ma questo ormai rischia di costituire soltanto non più di un dettaglio.