Le quattro domande dei sindaci lombardi a Attilio Fontana

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2020-04-02

Il sindaco di Milano Sala, quello di Bergamo Gori e il primo cittadino di Emilio Del Bono insieme a quelli di Cremona, Lecco, Mantova e Varese hanno quattro domande da fare alla Regione Lombardia: dove sono le mascherine promesse? Perché non proteggete i medici? Perché non fate il test ai sintomatici e ai loro contatti? Dove sono i test sierologici? Ce n’è anche una quinta: ma l’ospedale in Fiera non doveva contenere 600 posti? E perché ne ha solo 24?

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Il sindaco di Milano Beppe Sala, quello di Bergamo Giorgio Gori e il primo cittadino di Brescia Emilio Del Bono insieme a quelli di Cremona, Lecco, Mantova e Varese hanno quattro domande da fare alla Regione Lombardia, ad Attilio Fontana e Giulio Gallera sulla gestione dell’emergenza Coronavirus SARS-COV-2 e COVID-19 nell’area. E le loro questioni sollevano il velo sugli errori commessi dall’ente nella gestione del dramma.

Le quattro domande dei sindaci lombardi alla Regione

Le quattro domande puntano il dito sui ritardi della Regione nella gestione delle varie fasi dell’emergenza e sulla discrasia rispetto alle direttive del ministero della Sanità e dell’ISS sui test del tampone ai sintomatici e ai loro familiari, oltre che sui test sierologici per l’individuazione degli anticorpi non ancora autorizzati a differenza del Veneto e del Lazio:

– Quando saranno disponibili i dispositivi di protezione – a partire dalle mascherine – il cui arrivo è stato promesso da tempo?
– Che cosa sta facendo la Regione per proteggere il personale sanitario e gli ospiti delle RSA, in molte delle quali sappiamo purtroppo di numerosi decessi? In una recente conferenza stampa il Presidente Fontana ha detto che la situazione “è sicuramente sotto controllo” e che “tanto i plurisintomatici che i monosintomatici verranno sottoposti a tamponamento”. È ciò che si sta realmente facendo?
– Perché la Regione Lombardia non segue le direttive del Ministero e dell’Istituto Superiore di Sanità che prescrivono di sottoporre a tampone i sintomatici e, qualora questi siano positivi, i loro familiari e i contatti recenti?
– Perché la Regione Lombardia non ha ancora autorizzato l’avvio della sperimentazione dei test sierologici che altre regioni, come il Veneto e l’Emilia-Romagna, hanno invece attivato? L’esito di tali test – in abbinamento a un’indagine continua attraverso tamponi su un campione statisticamente rappresentativo per età, sesso, luogo di residenza… – è ritenuto decisivo per certificare l’evoluzione dell’epidemia e l’immunità di chi abbia contratto il virus anche in forma asintomatica.

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Le quattro domande dei sette sindaci alla Regione Lombardia

E nelle domande riecheggiano anche i dieci errori individuati dal Fatto Quotidiano qualche giorno fa:

1. Gli incontri a Roma.  L’Unità di crisi di Regione Lombardia si è addirittura riunita il 9 gennaio perla prima volta. Cosa si decide? Fino al 20 febbraio ben poco.

2. Prevenzione inesistente. Manca un piano pandemico regionale: sul sito,l’ultimo disponibile è quello contro il virus N1H1. Data: 2009.

3. Ospedalizzazione di massa. Quando scoppia il “caso Mattia”, la battaglia è già impari. Il virus è ovunque in Lombardia. Le terapie intensive vengono invase e, nonostante se ne fosse parlato a livello centrale già tre settimane prima, la Regione punta sugli ospedali. “È stato un disperato inseguimento all’ospedalizzazione, ma le epidemie non si vincono negli ospedali:quando arrivano lì sono già perse”, spiega una fonte molto qualificata. Con la logica dei più ricoveri possibili, dimenticando la medicina sul territorio, gli ospedali sono andati in collasso.

4. Ospedali veicoli di contagio “accidentale”.La scelta della Regione ha trasformato i presidi sanitari in vettori per la diffusione del virus anche tra gli operatori. Tanto che la percentuale degli infetti tra i medici in Lombardia è la più alta (13%, a livello nazionale è il 9%). I casi degli ospedali di Codogno e di Alzano Lombardo (Bergamo) –chiuso dopo i primi casi e poi inspiegabilmente riaperto –hanno dimostrato che, nonostante le buone prassi di medici e infermieri, il virus ha viaggiato dal pronto soccorso ai reparti.

5. Mancate zone rosse. Nei primi giorni di crisi il Basso Lodigiano diventa zona rossa. Il “modello Codogno” funziona. La Regione però tergiversa sul focolaio della bassa Valseriana, dove i casi sono ormai esplosi. “È evidente –spiega il professor Massimo Galli d e l l’ospedale Sacco –che la chiusura di Nembro e Alzano avrebbe ridotto la diffusione”.

 

6. I medici inascoltati. Un medico di Bergamo –lo ha raccontato il Wall Street Journal– il 22 febbraio ha provato a farsi ascoltare, mandando una lettera in Regione per consigliare la costituzione di strutture Covid dedicate. La Regione rispedirà al mittente la proposta, salvo ripensarci giorni dopo. Un gruppo di medici sempre di Bergamo scrive al New England Journal of Medicine: “Questo disastro poteva essere evitato con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio”.

7. Nessuna sorveglianza epidemiologica. Non c’è stata, fino a ora, nessuna mappatura epidemiologica, attraverso la ricostruzione dei contatti dei positivi.

8. Tamponi ai sanitari.Tra i target sfuggiti c’è la categoria più esposta: il personale sanitario. Spiega Stefano Magnone, medico a Bergamo e segretario regionale dell’Anaao : “All’inizio i tamponi venivano fatti anche al personale asintomatico. Molti erano negativi e il problema è stato sottovalutato. Adesso si mandano al lavoro medici con febbre non superiore a 37,5 e senza nemmeno fare loro il tampone. Forse perché si teme che i positivi siano così tanti, da sguarnire ulteriormente di personale i presidi ospedalieri”.

9. Personale non sufficiente. Dicono i medici in trincea: se tu Regione mi fai aumentare i posti letti in terapia intensiva, ma il personale resta sempre lo stesso, allora mi uccidi. Se non di virus, di fatica.

10. La vocazione al privato. Il “peccato originale” del modello Lombardia. Una galassia, quella del privato accreditato che, tranne alcune eccezioni, non sembra aver risposto a questa emergenza.

La risposta di Gallera ai sindaci

“I sindaci dei capoluoghi sono in contatto costante e diretto con il presidente Fontana e con noi, tutte le settimane teniamo delle videoconferenze con loro in cui si condividono tutte le strategie. Due giorni dopo il primo caso abbiamo convocato tutti i sindaci della Lombardia per affrontare i temi, per dire la tempestività del coinvolgimento istituzionale. Di fronte a questo vedere che una parte di sindaci, perché sono solo quelli di sinistra, scrivono delle cose strumentali e degli attacchi politici, secondo me non da una buona immagine di chi li fa, però poi giudicheranno i cittadini”, ha detto l’assessore lombardo Giulio Gallera, commentando a Telelombardia l’appello via social al governatore Attilio Fontana. “Io penso che non sia una bella immagine – ha replicato Gallera – noi qui abbiamo dovuto affrontare una guerra, uno tsunami che ha travolto tutto. In questo momento le istituzioni devono lavorare insieme. Noi, al di là di alcuni momenti, con il Governo nazionale potremmo fare molte polemiche e non le abbiamo mai volute fare perché capiamo le loro difficoltà e perché i cittadini vogliono un messaggio compatto delle istituzioni e cercare di dare soluzioni ai problemi”.

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Insomma, per Gallera (e per Fontana) si tratta solo di un attacco politico. Peccato, perché alle quattro domande se ne potrebbe aggiungere anche una quinta: come mai l’ospedale della Regione Lombardia alla Fiera di Milano, che all’inizio doveva avere addirittura 500 o 600 posti secondo l’assessore e il presidente, ad oggi sempre secondo l’assessore ne ha tra i dodici e i ventiquattro, come ha scritto oggi Marco Travaglio e come avevamo notato il giorno dell’inaugurazione con assembramento di giornalisti:

Il 12 marzo il geniale “governatore” Attilio Fontana parlava di “un ospedale da campo modello Wuhan da 600 posti letto di terapia intensiva in una settimana”. Il 13 era già sceso a “500 letti”, ma accusava la Protezione civile di “non voler fornire quanto promesso” e s’impegnava a “fare da soli con fornitori internazionali”. Il 16 ingaggiava per la bisogna Guido Bertolaso che – assicurava il garrulo Gallera – “ha una fama internazionale e un nome che ha un peso sulla scena mondiale e può avere accesso a rapporti con aziende e governi”.

Intanto Fontana, quello che faceva da solo, tornava a pietire dalla Protezione civile. Il 17 B., dal confino in Costa Azzurra, donava 10 milioni e San Guido, ringraziandolo per il “gesto d’amore”,diceva chela somma bastava per il “reparto da 400 posti di terapia intensiva in Fiera”.I posti scendevano e i fondi crescevano (10 milioni da Caprotti, 10 da Moncler, 10 da Del Vecchio, 2,5 da Giornale e Libero, 1,5 dell’Enel e molte donazioni private anonime) e i respiratori arrivavano.

ospedale fiera milano 24 posti

Possiamo fare un paragone con il resto d’Italia:

Nello stesso lasso di tempo (14 giorni) le donazioni private di Fedez, Ferragni &C. han consentito di ampliare di 13 posti la rianimazione del San Raffaele senza tanto clamore. Ancor meglio ha fatto il Sant’Orsola di Bologna, che in soli 6 giorni ha creato un nuovo padiglione di terapia intensiva da 30 posti senza rompere i maroni a nessuno né consultarsi con Fontana & Bertolaso.

A Bergamo, in meno di due settimane, gli alpini con l’aiuto di russi, cinesi e cubani han tirato su un ospedale da campo da 140 posti, fra terapia intensiva e subintensiva, che è il decuplo del miracolo a Milano (quindi, col metro di Fontana&C., dev’essere il più grande della galassia). E l’han fatto in silenzio,senza grancasse, trichetracche e cotillon.

Leggi anche: Travaglio e il miracolo dell’ospedale della Lombardia alla Fiera di Milano da 12/24 posti

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