Alitalia: perché non conviene riprendersi la compagnia di bandiera

di Massimo Famularo

Pubblicato il 2018-11-08

Un recente articolo a firma di Domenico Affinito e Milena Gabanelli sul Corriere della sera  ha suscitato più di una reazione perplessa poiché, dopo aver passato in rassegna i fallimenti della gestione passata, imputata ai “privati” si domanda se “Lo stato può fare di meglio?” e conclude che “dopo aver sperimentato ogni sorta di gestione disastrosa, …

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Un recente articolo a firma di Domenico Affinito e Milena Gabanelli sul Corriere della sera  ha suscitato più di una reazione perplessa poiché, dopo aver passato in rassegna i fallimenti della gestione passata, imputata ai “privati” si domanda se “Lo stato può fare di meglio?” e conclude che “dopo aver sperimentato ogni sorta di gestione disastrosa, conviene riprendersi la nostra ex compagnia di bandiera”.

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L’approccio è quello tradizionale delle soluzioni politiche ai problemi tecnici troppo delicati per essere lasciati in mano agli specialisti, con tanto di intervento salvifico da parte dello stato per risolvere gli immancabili fallimenti del mercato. Si tratta però di un approccio che fa a pugni con la realtà e non servono particolari competenze tecniche per valutarlo – per inciso tra i tecnici esiste un consenso abbastanza unanime sulla inopportunità di ulteriori disastrosi  interventi in favore di Alitalia in nome dell’Alitalianità . Primo argomento semplice: se Alitalia fosse stata realmente lasciata in mano ai privati, non staremmo qui a parlare e a fare i conti dei danni scaricati sui contribuenti. I privati avrebbero potuto risanarla e incamerare gli utili ottenuti, oppure avrebbero fallito nell’intento e avrebbero dovuto fronteggiare le perdite. Così invece non è stato: lo stato ha sempre fortemente indirizzato tutte le esperienze di coinvolgimento dei nuovi soggetti privati nell’azionariato dell’azienda, in un primo tempo, mandando a monte l’ipotesi di fusione con Air France-KLM e “benedicendo” la cordata di imprenditori italiani costituita sotto la regia di Intesa Sanpaolo, per un costo opportunità pari ad almeno 1,7 miliardi di mancato prezzo di vendita, 1,2miliardi di crediti rimasti alla Bad Company e 300 milioni del primo prestito ponte e successivamente, dopo un “contributo” di Poste Italiane nel 2014, pilotando la vendita di metà della compagnia ad Ethiad Airways poi sfociata nell’amministrazione straordinaria che ha visto (per ora) un nuovo prestito ponte da 900m che difficilmente rivedremo indietro.

 

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Dunque, la narrazione “i privati hanno fallito, lasciamo fare allo stato” è molto lontana dalla realtà: a fallire sono stati i maldestri tentativi dei vari governi italiani di attuare una politica industriale che mantenesse in vita un’azienda incapace di competere sul mercato scaricandone gli oneri sui privati. Secondo argomento semplice: giocare a lascia o raddoppia con un’azienda che perde soldi, senza intervenire sui fattori di ristrutturazione che, a detta di chi opera nel settore sono indispensabili per il rilancio, vuol dire con ogni probabilità continuare a distruggere denaro dei contribuenti. A che vale osservare che il numero di passeggeri è destinato a crescere, come fa l’articolo del corriere, se ad oggi l’azienda non si è dimostrata capace di servire la clientela realizzando degli utili? Si parla di intervento di Trenitalia  con partecipazione di minoranza assieme a un partner industriale: se quello che fa la differenza sulle sorti della compagnia è il cambio di rotta nella gestione, a che serve l’intervento dell’operatore ferroviario? Perché dobbiamo continuare a mettere soldi in un’azienda che perde con il rischio concreto di non rivederli? Terzo ed ultimo argomento semplice: gestire una compagnia aerea è un mestiere difficile e lo stato Italiano ha dato ampia prova, da solo e in partnership con soci privati, di non essere capace di svolgere questa attività senza distruggere risorse dei contribuenti, perché non la facciamo finita una volta per tutte? Esiste evidentemente una good company per la quale aziende operanti nel settore sono disponibili a pagare un prezzo maggiore di zero, previo rispetto di alcune condizioni di fondo, a parte l’interesse di pochi politici e di un certo numero di dipendenti, cosa esattamente ci impedisce di vendere definitivamente quello che si può lasciando perdere temerari utilizzi delle ferrovie dello stato come veicolo di investimento societario?

Leggi sull’argomento: Alitalia: ma davvero abbiamo bisogno di una compagnia di bandiera?

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