Un amico ritrovato e il buon vecchio Karl Marx

di Vincenzo Vespri

Pubblicato il 2020-10-16

Mi ricordo ancora come incubo le lezioni di filosofia alle superiori tutte incentrate su Marx. Si viveva il post 68 e l’analisi marxista era utilizzata come unico strumento consentito per l’interpretazione della realtà anche se ciò raggiungeva livelli grotteschi. Si doveva avere una assoluta fiducia in Marx quando prevedeva il crollo del capitalismo a favore …

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Mi ricordo ancora come incubo le lezioni di filosofia alle superiori tutte incentrate su Marx. Si viveva il post 68 e l’analisi marxista era utilizzata come unico strumento consentito per l’interpretazione della realtà anche se ciò raggiungeva livelli grotteschi. Si doveva avere una assoluta fiducia in Marx quando prevedeva il crollo del capitalismo a favore del sistema comunista, unica vera alternativa al freddo e sfrenato liberismo. E questo nonostante che la storia non stesse per nulla dando ragione a Marx, Il capitalismo liberale, che avrebbe dovuto essere morente, aveva infatti resistito prima agli attacchi dell’imperialismo, poi aveva sconfitto il nazismo ed infine stava avendo la meglio anche sull’umanesimo socialista. L’idea di libero mercato si era saputa rinnovare di continuo, superando ogni aspettativa. Il crollo dell’Unione Sovietica aveva poi inculcato l’idea che il pensiero marxista fosse anacronistico. Quindi si era passati nel giro di meno un anno dall’idea che Marx avesse sempre e comunque ragione all’idea che Marx fosse superato.

Karl Marx

Questo repentino cambiamento d’idea però non corrispondeva alla mia sensazione epidermica che tutto sommato gli insegnamenti di Marx mantenessero comunque una loro attualità. Anche perché, con la fine dell’Unione Sovietica, il capitalismo avevo abbandonato le vestigie più umane ed era ritornato a essere quello brutale così analiticamente e magistralmente descritto da Marx. Un altro aspetto che ritenevo assolutamente geniale di Marx era l’intuizione della caduta del saggio di profitto. Marx giunse al fatto che il profitto doveva necessariamente calare sulla base della teoria del valore da lui stesso enunciata: essendo il capitale sotto forma di salario (capitale variabile), unica fonte del plusvalore, l’aumento progressivo della composizione organica del capitale, riferita agli investimenti sui macchinari e, più in generale, sul continuo aggiornamento tecnologico (capitale costante), avrebbe dato, come risultato del processo produttivo, un saggio dei profitti progressivamente decrescente in proporzione agli investimenti complessivi. Però non immaginavo che Marx avesse avuto una intuizione geniale anche sulla finanziarizzazione del capitalismo.

Ho scoperto ciò, ritrovando, per caso, un amico dei tempi della Normale, Valdimiro Giacché, finissimo studioso di Marx ed esperto di economia finanziaria. Mi ha dato in visione un suo interessantissimo saggio (Capitale produttivo d’interesse e “finanziarizzazione” dagli anni Ottanta ad oggi) dove, partendo dal terzo libro del Capitale, dimostra che per Marx il credito appare come la causa della sovrapproduzione: «se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e degli eccessi e della sovraspeculazione nel commercio, ciò accade soltanto perché il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui forzato sino al suo estremo limite, e vi viene forzato proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, che quindi rischiano in misura ben diversa dal proprietario il quale, sinché agisce in prima persona, considera con preoccupazione i limiti del proprio capitale privato».

Grazie al credito, infatti, la produzione può essere spinta oltre i limiti del consumo (ossia dell’effettiva domanda pagante), ma alla fine il processo si inceppa e la crisi finisce per mostraci l’invalicabilità di quel limite. Questa analisi “marxista” riesce a spiegare perfettamente la crisi finanziaria del 2007 e come non riusciamo a tirarcene fuori. Ci si era illusi che «una forte spinta alla domanda attraverso un’estensione delle facilitazioni creditizie avrebbe potuto compensare i problemi dal lato dell’offerta. Ma alla fine si è dovuto pagare pegno all’economia reale». I “padroni delle ferriere” si erano illusi che la crisi potesse essere superata da una parte con un ricorso sempre più massiccio e spregiudicato al debito e dall’altra comprimendo i salari e i diritti dei lavoratori, al fine di aumentare il profitto del capitale investito. Pie illusioni.

Non si è superata la crisi e, anzi, si è assistito pure al fenomeno della «carestia di denaro» che ha trasformato il denaro stesso, da semplice mezzo di circolazione del capitale, in «merce assoluta», in «forma autonoma del valore» contrapposta alle singole merci: in parallelo all’assottigliarsi dei flussi finanziari è infatti aumentata la richiesta di mezzi di pagamento, quali le banconote, e si sono verificati rilevanti fenomeni di tesaurizzazione. Questa fase è tuttora in corso, a dispetto del fiume di denaro impiegato dagli Stati per tamponare la crisi e del mantra secondo cui «il peggio è alle nostre spalle». Anche molti di coloro che ripetono queste parole rassicuranti in realtà si chiedono di quale entità debba essere la distruzione di capitale per ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumulazione. Giacché alla fine del saggio propone quattro possibili strade per uscire da questa impasse:

Il riavvio. Ossia far finta di nulla e sperare che il debito e la finanza possano far ripartire il sistema economico come se nulla fosse accaduto

Lo shift. Pensare di adottare modelli economici diversi quali ad esempio il modello cinese del Belt e Road basato su progetti infrastrutturali che spingendo allo sviluppo aree adesso sottosviluppate, dovrebbe far ripartire una crescita virtuosa dell’economia. Ossia, in altre parole, cercare ricondurre il capitale alla sua funzione originaria di supporto alla produzione.

Il reset. Ossia la distruzione fisica del capitale. La crisi del ‘29 è stata superata solo grazie alla II Guerra Mondiale. Ma Guerre a parte, quale fenomeno esogeno può determinare una tale distruzione di capitale da far superare questa crisi che ci appare adesso endemica?

Cambiare il sistema. Secondo Marx la crisi se è necessaria per il sistema capitalistico per superare gli squilibri generati dall’altra è chiara indicazione che il sistema di produzione capitalistico è non definitivo e può essere superato. Se si legge questa crisi come una crisi di sistema, significa che si deve investire in nuovi modelli che superino le contraddizioni insite nel modello capitalista.

Insomma, ritrovando un saggio compagno ai miei tempi degli studi matti e disperatissimi a Pisa, ho capito che se Dio è morto (inteso come la concezione di Dio che abbiamo avuto tramandata dai nostri genitori), se il Capitalismo sembra in agonia e le Democrazie Occidentali sembrano alla frutta, ci possiamo consolare pensando che le utopie di Marx sono ancora vive e vegete e lottano insieme a noi come ai tempi della nostra spensierata gioventù.

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