Scuola ed Università in Italia: gli ultimi fossili (forse) viventi

di Vincenzo Vespri

Pubblicato il 2020-09-07

Il mondo sta cambiando. Il Covid ha ulteriormente accelerato i cambiamenti. Il nostro modo di vivere e di lavorare, le nostre abitudini, la nostra etica, le nostre convinzioni stanno cambiando giorno dopo giorno e sempre più velocemente. Probabilmente un milione di lavoratori italiani anche dopo il covid rimarranno in smartworking. E’ un cambiamento irreversibile Ci …

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Il mondo sta cambiando. Il Covid ha ulteriormente accelerato i cambiamenti. Il nostro modo di vivere e di lavorare, le nostre abitudini, la nostra etica, le nostre convinzioni stanno cambiando giorno dopo giorno e sempre più velocemente. Probabilmente un milione di lavoratori italiani anche dopo il covid rimarranno in smartworking. E’ un cambiamento irreversibile Ci sono però istituzioni che non solo non seguono il progresso, ma addirittura arretrano: sono la scuola e l’università. E’ come se l’essere umano smettesse di andare verso le sorti magnifiche e progressive e ritornasse ad essere una scimmia, gli spuntasse di nuovo la coda e si sentisse inesorabilmente attratto dai rami degli alberi per dondolarsi dopo una scorpacciata di banane. Eppure è sulla scuola e sull’università che si giocherà il futuro del nostro Paese.

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Il ministro dell’Istruzione ha giocato tutta la sua (residua) reputazione nei banchi monouso a rotelle. Forse se si spendevano i soldi spesi nei banchi nell’edilizia scolastica sarebbe stato meglio. Lasciando perdere le facili battute tipo dopo la generazione zeta e i millennials avremo la generazione azzolina riconoscibile dalle dita mozzate dagli autoscontri fra banchi, l’osservazione naturale da porsi è che questo tipo di banchi è adatto solo per una didattica totalmente digitalizzata: senza libri di testo cartacei, senza vocabolari, senza quaderni, senza lavagne tradizionali, solo tablet e lavagne elettroniche. Senza entrare nel merito di questa didattica, la domanda è, secondo voi, quante scuole e quante famiglie a casa hanno un’attrezzatura adeguata a ciò?

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L’Università è riuscita perfino a fare peggio. Il World Economic Forum ha pubblicato il rapporto sulla competitività 2017-2018 di 137 nazioni. L’Italia risulta al quarantatreesimo posto, nonostante una buona scuola primaria, una buona sanità e una moderata capacità d’innovazione. Nel capitolo innovazione siamo infatti trentaquattresimi. Ma a peggiorare la media di questa classifica è l’interesse istituzionale all’uso di prodotti di elevata tecnologia (novantacinquesimi): come dire che non siamo capaci di sfruttare le innovazioni prodotte. Una delle ragioni di questo performance insoddisfacente è sicuramente l’eccessiva rigidità nella burocrazia universitaria, figlia di una visione ormai ottocentesca e sorpassata della didattica universitaria. Secondo questa visione, il sapere è statico, non solo è immutabile in sé ma anche sono immutabili i saperi da conoscere. Per reclutare un professore nell’università, si richiede il superamento di tre soglie riguardanti il numero di lavori prodotti negli ultimi 10 anni, il numero di citazioni dei lavori pubblicati negli ultimi 15 anni e un particolare indice, l’indice di Hirsch che si basa sia sul numero delle pubblicazioni che sul numero di citazioni ricevute. Secondo la definizione, uno scienziato ha un indice n se almeno n lavori tra quelli che ha pubblicato sono stati citati almeno n volte ciascuno. Questi indicatori non hanno alcuna base scientifica e favoriscono i ricercatori seriali, che operano su tematiche consolidate non particolarmente innovative. Solo a titolo di esempio, il famoso fisico Higgs, quello della famosa particella chiamata particella di Dio perché fondamentale per avere un universo abitabile da specie intelligenti, ha preso (giustamente) il premio Nobel per i suoi lavori ma non sarebbe mai potuto essere Professore in Italia perché la sua ricerca, estremamente innovativa, non gli avrebbe permesso di superare gli indicatori ANVUR e che non trovano quasi mai riscontro in nessun paese avanzato.

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Questo approccio basato su questi indicatori è estremamente penalizzante per materie altamente innovative, multidisciplinari ed emergenti, esattamente quelle discipline che ci permetterebbero di “mettere in pratica” e utilizzare l’innovazione che ancora sappiamo produrre. Secondo le attuali leggi che regolamentano l’Università Italiana, non avrebbe potuto essere chiamato come docente Steve Jobs. Al fine di rendere peggiore questa situazione già così penalizzante per il Paese, il Governo ha deciso di cancellare un emendamento proposto dal senatore Pittoni che permetteva anche a noi universitari di fare consulenza. Ora è chiaro ed evidente che qualcuno di noi professori avrebbe cercato di abusare di questa possibilità, ma così significa impedire all’università sia di contribuire al progresso del Paese e sia di aiutare i nostri studenti a trovare un adeguato posto di lavoro. In tutti gli altri paesi avanzati, il compito istituzionale dell’università si conclude quando lo studente ha il suo primo lavoro mentre in Italia si ferma a quando consegue la laurea. Cosa fa dopo: se scappa all’estero, se rimane disoccupato, se è sotto-occupato non gliene può fregare di meno ai nostri politici. L’importante, come affermato dall’atto d’indirizzo della Fedeli e ribadito da questa ultima decisione governativa, è che il professore universitario produca tanta ricerca assolutamente inutile. Non si azzardasse a fare qualcosa di utile per inserire gli studenti nel mondo lavorativo o, peggio ancora, per rendere più competitiva la nostra industria. Dobbiamo assolutamente rimanere 95-esimi nel mondo, anzi dobbiamo peggiorare ancora. Perché mai, dopo essere stati superati dal Kazhakistan, non dobbiamo essere superati anche dalla Tanzania? Impedire a noi docenti universitari di fare consulenze è come infibulare tutte le bambine italiane per evitare che qualcuna, crescendo, eserciti la professione più vecchia del mondo. E’ una pazzia senza senso, è un inno alla decrescita (in)felice, è l’esaltazione dell’imminente tracollo economico e morale.

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