Italsider Bis: quanto ci costa nazionalizzare ILVA

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2019-11-08

PD e M5S indicano la via della nazionalizzazione per ILVA se saltano le trattative con ArcelorMittal. Ma l’ideona avrebbe un costo esorbitante e scarse probabilità di riuscita. Meglio bonificare e decontaminare

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Era il 1995 quando il governo Prodi privatizzò l’allora Italsider vendendola al gruppo Riva con una «girata» di azioni (pari al 100% del capitale) a un prezzo di 2.500 miliardi di lire, per una valutazione complessiva della società di circa 4.000 miliardi di lire, secondo quanto fu reso noto dall’Iri. La scelta provocò infinite polemiche sul prezzo troppo basso e si discusse per anni del presunto regalo agli imprenditori che poi con ILVA finirono nei guai.

Italsider Bis: quanto ci costa nazionalizzare ILVA

E siccome certi amori fanno giri immensi e poi ritornano sul tavolo del governo oggi c’è un dossier che riguarda proprio la nazionalizzazione di ILVA. Mentre i commissari diffidano ArcelorMittal dal disdettare il contratto e «mettere in atto comportamenti che possono danneggiare i lavoratori e lo stato degli impianti» e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si esalta parlando di battaglia legale del secolo contro gli indiani che vogliono recedere dal contratto firmato un anno fa,  il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli conferma che l’ipotesi di un intervento dello Stato non è da escludere: «Siamo pronti a tutto per garantire la continuità aziendale di Ilva e soprattutto per non realizzare lo scellerato piano di licenziare più di 5 mila persone».

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L’ex ILVA in cifre (La Stampa, 6 novembre 2019)

E il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli in un’intervista a Repubblica dice che non vedrebbe, nel caso, i rischi:

Si rischia una nazionalizzazione?
«Non vedo perché parlare di rischio. Credo sia stato storicamente un errore privatizzare il settore della siderurgia, che era un fiore all’occhiello e di cui oggi rimane un unico stabilimento».

Ce lo possiamo permettere?
«In questo momento la priorità del governo è far sì che ArcelorMittal rispetti gli impegni presi. Questo è il piano A, il piano B e il piano C e per questo ho richiamato il Parlamento, le forze sociali e tutte le componenti istituzionali del Paese a un senso di responsabilità che deve far percepire all’imprenditore la presenza massiccia del sistema Italia».

ILVA: i rischi di nazionalizzare a carico nostro

Ma i rischi ci sono invece. Alessandro Barbera su La Stampa spiega che il primo è quello del prezzo politico da pagare per una mossa del genere.

Fra costo del riacquisto dello stabilimento, adeguamenti ambientali e ammodernamento degli impianti lo Stato sarebbe costretto a sborsare quattro miliardi e duecento milioni di euro. L’ironia della Storia vuole che sia poco meno della cifra spesa per costruirlo negli anni ruggenti del boom economico. Ci vollero cinque anni: prima pietra il 9 luglio 1960, il nastro dell’ultimo altoforno fu tagliato il 10 aprile 1965 dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.

Costo: quattrocento miliardi di lire. Al cambio di oggi fanno quattro miliardi, duecentoventi milioni e spiccioli. E’ più di quel che vale la voce cuneo fiscale nella Finanziaria per il 2020. Questo spiega perché il rendimento dei Btp decennali italiani sia salito all’1,25 per cento, e lo spread coi Bund tedeschi sia ormai peggiore di quello dei bond greci.

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Ilva, cosa c’è dietro lo stop di ArcelorMittal (Corriere della Sera, 6 novembre 2019)

Un miliardo e ottocento milioni servono a riscattare gli stabilimenti dalla gestione commissariale, quel che avrebbe pagato il signor Mittal per dieci anni di affitto. Quasi la metà di quei soldi – circa ottocento milioni – sono crediti dello Stato, di fatto una partita di giro. C’è però da aggiungere l’enorme costo necessario a dare un futuro all’Ilva. L’ultimo piano industriale prevede un miliardo e duecento milioni per l’ammodernamento degli impianti, altrettanto per gli interventi di bonifica e adeguamento ambientale.

Ma i problemi non finirebbero qui. Perché anche dopo essersi accollato una spesa del genere, per lo Stato l’acciaio rischia di essere un pessimo affare. La crisi dell’auto, la concorrenza cinese, i dazi di Trump non rendono conveniente già oggi la produzione, per questo ArcelorMittal ha usato la scusa dello scudo penale mentre puntava concretamente ai cinquemila esuberi. E lo stesso problema di Alitalia si porrebbe per lo Stato. Tanto che pare più conveniente allora seguire una strada più semplice:  «In una fabbrica a ciclo integrato se chiudi una parte non funziona il resto, e poi è una fantasia che l’area a freddo non inquini: ne abbiamo buttato di olio in mare – spiega a La Stampa Raffaele Cataldi, operaio da 22 anni, in cigs da ottobre, membro del Comitato lavoratori liberi e pensanti – L’Ilva è l’emblema del fallimento della politica: noi diciamo che si deve fare un accordo di programma, e ripartire dalla bonifica che secondo studi di Confindustria porterebbero 30 mila posti di lavoro. Il futuro delle industrie è questo: decontaminare. E smantellare: sotto lo stabilimento c’è un’altra Ilva». Alla ricerca di futuro «Il Piano B esiste, ed è bonificare. Ci vorranno almeno 20 anni», sostiene Stefania Petaro, dell’associazione Giustizia per Taranto, che partecipa al sit in con le mamme di Tamburi combattenti.

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