PFAS in Veneto, cosa succede

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2017-09-22

La contaminazione da PFAS non è un problema solo Veneto ma riguarda anche altre aree industriali del Paese. Il ministero della Salute però si è rifiutato di fissare dei limiti nazionali per il livello di inquinanti demandando tutto alle Regioni coinvolte e lasciando quindi uno spiraglio alle aziende che verranno considerate responsabili

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Regione Veneto e Governo tornano a scontrarsi sulla questione della contaminazione ambientale da PFAS. Il terreno dello scontro sono i limiti sulla presenza degli inquinanti nelle acque. L’anno scorso il Ministero dell’Ambiente aveva fissato dei limiti per la presenza di acido perfluoroottanoico (PFOA) e perfluorottano sulfonato (PFOS) ma non per tutti gli altri contaminati rispetto ai quali non sono stati inseriti dei limiti di legge nazionale. Per il Presidente del Veneto Luca Zaia l’atteggiamento del Ministero è “scandaloso” perché non fissando limiti nazionali “fa finta di non vedere la realtà” e dice alla Regione di arrangiarsi.

Il Ministero della Salute non ritiene si tratti di un problema di rilevanza nazionale

Le sostanze note come PFAS sono composti chimici con caratteristiche persistenti, bioaccumulabili e tossiche classificate come cancerogene di livello 2b che inoltre alterano il normale funzionamento del sistema endocrino (per questo vengono chiamati anche interferenti endocrini) e quindi con la regolazione della produzione di ormoni e il normale funzionamento del sistema ormonale. In Veneto la questione è salita alla ribalta delle cronache a fine 2013 in seguito alla pubblicazione di un rapporto dell’ARPAV (l’agenzia regionale per l’ambiente) nel quale si ricostruiva la genesi della contaminazione delle falde acquifere e si individuava la sorgente della comunicazioni negli scarichi dell’azienda Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza.
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L’allarme però scattò solo due anni dopo, nel 2015, con un’interrogazione del consigliere regionale Andrea Zanoni (PD) e di altri consiglieri d’opposizione. Successive indagini accertarono la presenza dei contaminanti sul territorio di quasi 30 comuni veneti per un totale di oltre 300mila persone coinvolte. Stando alle indagini dell’ARPAV il problema non riguarda la rete idrica pubblica ma i pozzi privati dai quali viene attinta l’acqua per l’uso domestico e l’irrigazione dei campi. La Regione ha quindi messo in campo un piano sanitario per testare la popolazione dell’area rossa. Gli abitanti delle aree maggiormente contaminate sono stati sottoposti ad esami del sangue dai qualie è emerso che hanno valori di PFOA nel sangue 20 volte superiori rispetto a coloro che vivono in aree non inquinate.
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Il 29 agosto si è insediata la Commissione d’inchiesta per le acque inquinate del Veneto presieduta dal consigliere del M5S Manuel Brusco che qualche giorno fa denunciava come l’estensione della contaminazione andasse ben oltre la zona inquinata e non riguardasse solo i pozzi privati ma anche gli acquedotti pubblici. Il problema però potrebbe anche riguardare i prodotti alimentari dal momento che l’acqua delle falde inquinate è stata utilizzata per l’agricoltura e l’allevamento.

Perché è importante fissare dei limiti nazionali per i PFAS

Nel frattempo anche Greenpeace ha avviato una campagna di sensibilizzazione per l’inquinamento da PFAS in Veneto sono nati diversi comitati locali NO PFAS che stanno valutando azioni legali contro la Miteni. Nel caso alla fine delle indagini si arrivi ad un processo è probabile che anche gli enti locali dell’area coinvolta si costituiscano parte civile. Particolare attenzione è stata posta per quanto riguarda gli effetti della contaminazione sugli adolescenti e i minori di 14 anni. Dalle analisi è risultato che nei 14enni la concentrazione di PFAS nel sangue è dalle 35 alle 40 volte più alta del normale. Alle famiglie è stata offerta una plasmaferesi per “ripulire il sangue”.

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Il Veneto in realtà ha già stabilito dei limiti a livello regionale ma aveva chiesto al Ministero di fissare delle tabelle nazionali. Un aspetto cruciale anche per evitare che durante eventuali contenziosi le aziende contestino la validità delle tabelle venete e la mancanza di un limite nazionale e quindi una discrasia tra le norme. In una nota diffusa due giorni fa l’Assessore regionale all’Ambiente Giampaolo Bottaccin ricordava che sono stati rilevati casi simili di contaminazione e inquinamento da PFAS anche in altre aree industriali. Bottaccin ha spiegato

Forme di inquinamento di questo tipo sono state rilevate in concentrazioni più alte nelle aree industriali del Bormida e nel Bacino del Lambro, oltre che, come arcinoto, in Veneto. Se l’impianto fluorochimico Trissino è la maggior sorgente individuata, un’altra sorgente significativa è l’area della concia di Santa Croce sull’Arno. Interessata è anche praticamente l’intera asta del Po, con la sorgente più significativa nel sottobacino Adda-Serio e con carichi da Torino a Ferrara. Per quanto riguarda i Pfoa, Trissino è in buona compagnia con l’area degli impianti chimici piemontesi di Spinetta Marengo.

Stando ai dati di una ricerca del CNR del 2013 il problema è più diffuso di quanto si possa pensare e solo nel maggio scorso il Ministero dell’Ambiente indicava a tutte le Regioni di attivare Piani di Monitoraggio. Ad agosto il Ministero dell’Ambiente ha inviato un ulteriore sollecito alle regioni. Il Ministero della Salute però, con nota del Direttore Generale della Prevenzione Sanitaria, ha detto che il problema di fatto esiste solo in Veneto e che non si ritiene di fissare limiti di performance nazionali.

Ma quanto sono pericolosi i PFAS?

Dal punto di vista scientifico non è stata identificata una vera e propria soglia oltre la quale aumentano i rischi  per la salute. Si procede così in base al principio di precauzione per evitare ulteriori danni. Sulla materia si è espressa anche l’EFSA che ha fissato, a titolo precauzionale ma ritenendo “improbabile che il PFOS e il PFOA possano avere effetti negativi sulla salute della popolazione in generale in Europa poiché l’esposizione dietetica a queste due sostanze chimiche è inferiore alle rispettive TDI”, la dose giornaliera massima di assunzione (TDI) per il  PFOS a 150 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno mentre per il PFOA, una TDI pari a 1,5 microgrammi (1.500 nanogrammi) per chilogrammo di peso corporeo al giorno.

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Quello che si sa è che una esposizione prolungata alle sostanze perfluoroalchiliche può aumentare i rischi per la salute. Secondo Ivana Simoncello, direttore del coordinamento dei dipartimenti di prevenzione dell’Usl 6 Euganea «È bene peraltro ricordare che la contaminazione prolungata da Pfas aumenta sì il rischio di patologie cardiovascolari o del diabete, ma così come succede per uno stile di vita scorretto. Non banalizzo: i Pfas sono un fenomeno degno di monitoraggio, ma possono pesare tanto quanto alcol, eccesso di zuccheri e scarsa attività fisica nella vita di un bambino». Aspetto non secondario e ancora da accertare della vicenda è la responsabilità di Miteni, azienda attualmente di proprietà dal 2009 del gruppo Weylchem a sua volta parte del gruppo industriale Icig. La società – che in passato è stata acquisita da Mitsubishi e prima ancora era della famiglia Marzotto – sostiene di aver sempre rispettato le normative e le leggi in materia ambientale. Secondo Greenpeace però l’Azienda era a conoscenza della contaminazione, da alcune ispezioni effettuate dai Carabinieri del NOE è risultato che tra il 1990 e il 2009 Mitsubishi e Miteni hanno commissionato indagini sul livello di inquinamento senza però mai trasmettere – come prevede la legge – i risultati alle autorità sanitarie e alla Regione.
 
EDIT: Riceviamo dall’ufficio stampa di Miteni la seguente nota:
A seguito delle informazioni veicolate da Greenpeace e alcune testate, Miteni ribadisce con fermezza che le indagini sui terreni fatte da Mitsubishi non erano a disposizione di Miteni che sta facendo azione legale contro la precedente proprietà. Quei documenti a Trissino non c’erano. Va anche ribadito peraltro che la campagna di ricerca e scavi fatta all’interno dello stabilimento insieme ad Arpav sulla base dell indicazioni del nucleo ecologico dei carabinieri in queste settimane non ha rivelato alcun rifiuto sepolto. È un dato di fatto che l’azienda non produca più Pfas a catena lunga dal 2011, quelli biopersistenti. È evidente che più sono giovani le persone che accumulano Pfas nel sangue meno queste sostanze possono provenire da Miteni. L’azienda sta sottraendo Pfas all’ambiente, depurando la falda con performance del 99% e avendo gli scarichi, anche quelli industriali, che rispettano i limiti delle acque potabili.

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