Il Lonfo raramente barigatta

di Vincenzo Vespri

Pubblicato il 2019-04-22

Per festeggiare la giornata di Pasqua mi sono concesso un pomeriggio post pranzo basato sula visione di un film che mi è sempre piaciuto molto : Amici Miei Atto I e II (teoricamente ne sarebbero due di film, ma hanno una unitarietà così intrinseca..). Uno dei punti più significativi e divertenti è quello della supercazzola. …

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Per festeggiare la giornata di Pasqua mi sono concesso un pomeriggio post pranzo basato sula visione di un film che mi è sempre piaciuto molto : Amici Miei Atto I e II (teoricamente ne sarebbero due di film, ma hanno una unitarietà così intrinseca..). Uno dei punti più significativi e divertenti è quello della supercazzola. Chi non si ricorda frasi quali : “Come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro “ “senza contare che la supercazzola prematurata ha perso i contatti col tarapìa tapiòco” etc etc. Rappresentano l’uso di parole senza senso dette al solo scopo di confondere. Da sempre chi ha cultura cerca di confondere chi non ne ha, sparando parole altisonanti anche prive di senso. Ma è anche molto di più.

La supercazzola ha anche la funzione di presa in giro. Infatti nel punto più crudo del film, la morte del Perozzi, anche nel momento della confessione, con le ultime energie rimaste, il Perozzi non può fare a meno di sparare una supercazzola. Presa in giro finale di sé stesso e della sua vita oltre che dell’autorità religiosa. Questo duplice aspetto della supercazzola si ritrova nella nostra cultura Toscana. Come non ricordare, nel Decameron, come Calandrino è preso in giro usando parole altisonanti:

“Disse allora Calandrino:- E quante miglia ci ha?
Maso rispose:- Haccene più di millanta, che tutta notte canta.”

E il finale di Amici Miei, Atto I, non ci ricorda la novella di Boccaccio di Ser Ciapparello ? Dove il Protagonista, con una falsa confessione inganna un frate e viene considerato santo.
Ma l’idea di utilizzare parole prive di significato, ma dal suono familiare alla lingua, trova forse il massimo rappresentante (in Italia) nel toscanissimo Fosco Maraini con la tecnica poetica della metasemantica. Chi non è rimasto affascinato leggendo la prima volta la poesia “ Il Lonfo”?

Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.
È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

Però temo che questo gioco sia riservato solo a noi toscani. Perché delle parole prive di senso abbiano impatto, si devono mettere termini nello stesso tempo sia prive di referente linguistico, che comprensibili perché costrette a seguire le stesse regole sintattiche e grammaticali della lingua del contesto generale. E chi può fare questa ardita costruzione se non noi Toscani in quanto proprio il nostro dialetto è diventato la lingua dello stato unitario e questo ci dà naturalmente una assoluta padronanza della lingua, cosa assolutamente richiesta per qualunque esercizio di metasemantica. Anche nella supercazzola Amici miei è un film toscano.

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