Le conseguenze economiche della Lava Jato e i suoi legami con l’FBI

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2020-07-24

La parabola dell’agente speciale Leslie Rodrigues Backschies ed il suo sempre maggiore coinvolgimento nelle vicende giudiziarie del Brasile

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In un articolo di tre anni fa pubblicato dal portale di informazione online Poder 360, dal titolo Atingido por Lava Jato e competição no exterior, setor naval afunda, si metteva brillantemente in luce come l’inizio della Lava Jato fosse coinciso con la sostanziale distruzione dell’industria navale brasiliana con dimissioni che superarono le cinquantamila unità a partire dal 2014. Una sostanziale desertificazione di questa specifica area, che già all’epoca mostrava uno scenario fatto di opere mai portate a termine, cantieri vuoti e progetti, anche di importanza strategica, quasi pronti, ma mai conclusi. Progetti di milioni di dollari che la furia giustizialista di un manipolo di procuratori ha impedito che fossero ultimati e consegnati. Una situazione acuita dalla forte caduta del numero di lavoratori impiegati in questo settore, che, dal 2014 al 2017, è passato da 83.000 a 33.000 unità, stando ai dati comunicati dal Sinaval, il Sindacato Nazionale dei Lavoratori del Settore navale. Un dato, il quale, ad oggi, è lecito supporre, si sia ulteriormente ridotto.

Le conseguenze economiche della Lava Jato e i suoi legami con l’FBI

Le grandi imprese di costruzione nazionale come la Odebrecht, la Camargo Correa, la OAS e la UTC, solo per citare le principali, sono conglomerati industriali internazionali, le quali hanno una partecipazione assai rilevante anche nel settore della cantieristica navale. Oltre a questo, preme rilevare che molti ordinativi provenivano dalla Petrobras, che, a seguito delle varie operazioni, più o meno lecite, svolte dalla Lava Jato, è stata costretta a ridurre drasticamente i propri investimenti. Cantieri navali come la Eisa, la Enseada, la Vard, la Promar e la Aliança, a Rio de Janeiro, lavorano ormai con una capacità drasticamente ridotta. Lo stesso dicasi per la cantieristica dello Stato di Bahia, dove la Enseada Paraguaçu naviga in acque piuttosto agitate a causa della forte dipendenza dagli ordinativi della Sete Brasil, industria creata nel 2010 per fornire ventinove sonde alla Petrobras al fine di svolgere ricerche nei giacimenti petroliferi del Pré-sal, uno dei grandi convitati di pietra nella sporca faccenda che unisce la Lava Jato a voi ambienti, politici e giudiziari, di Washington.

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In questo lento ma inesorabile processo di deindustrializzazione del Brasile, ampiamente incentivato dalla Lava Jato, era inevitabile che si aprissero spazi per investimenti stranieri nel Paese, ciò che, tuttavia, alla luce delle dinamiche venutesi a creare per mezzo della tribunalizzazione della politica come dell’economia, rappresenta una sorta di colonizzazione 2.0. Accade così che la CCCC (altrimenti nota come China Communications Construction Company), dopo essersi comprata l’80% della brasiliana Concremat, abbia vinto un mega appalto per la costruzione di un ponte tra Salvador e Itaparica (Stato di Bahia), oltre ad altre opere già programmate a São Luis, capitale dello Stato del Maranhão. La concorrenza è senza dubbio un valore aggiunto in una economia di mercato; questo, parimenti, non è accaduto in Brasile, dove alla distruzione e in certi casi anche al saccheggio delle più importanti imprese brasiliane è corrisposta una massiccia quanto prevedibile penetrazione di industrie straniere. Lo mostra chiaramente la relazione tecnica svolta nel 2019 dalla McKinsey nella quale si rileva in maniera netta come le imprese straniere negli ultimi anni (leggasi a partire dalla Lava Jato) abbiano riempito la lacuna industriale lasciata dalle imprese brasiliane, in particolare il vuoto lasciato dalla Odebrecht. Ciò che dunque sembra sotteso a tutta la perversa storia della Lava Jato, col decisivo apporto della casta giudiziaria nella sua totalità, è che l’indebolimento delle imprese brasiliane di ogni settore, a causa della suddetta operazione, difficilmente aprirà il mercato brasiliano ad una reale concorrenza, quanto, tutto al contrario, ad una rinnovata forma di colonizzazione, come è nella migliore tradizione delle destre sudamericane e come, storicamente, l’ultimo governo di Getúlio Vargas, in preziosa e stretta collaborazione con Tancredo Neves, cercarono di impedire con la creazioni di grandi industrie di Stato, quali la Eletrobras, per la quale il governo Bolsonaro, non a caso, da tempo medita la privatizzazione.

La parabola dell’agente speciale Leslie Rodrigues Backschies

A questo occorre aggiungere come la prima e più urgente riforma di cui il Brasile avrebbe bisogno, dal punto di vista economico, sarebbe un deciso rafforzamento del Mercosul, a prescindere dal colore politico dei singoli governi nazionali, al fine di dare una spinta propulsiva al mercato interno della regione, evitando ogni disgraziata sudditanza nei confronti di possibili partner commerciali non alla portata di nessuno dei Paesi che formano il continente latino-americano. In una età di imperi, per riprendere il titolo di un fortunato e illuminante libro di Herfried Münkler, il Brasile, ancorché potenza di dimensioni continentali, non può pensare di aprire il Paese agli investimenti di imprese straniere in una situazione di evidente debolezza delle proprie imprese nazionali, chi più e chi meno vittima del furore giustizialista della Lava Jato, e senza un previo ripensamento e – vale la pena ribadirlo – rafforzamento di tutto quanto concerne il Mercosul. Questo, ovviamente, a meno che non sia precipuo obiettivo del presente governo ridurre il Brasile ad una colonia dei grandi potentati industriali statunitensi, europei, cinesi e chi più ne ha, più ne metta. Aprire un Paese al mercato e alla concorrenza non è aprioristicamente un qualcosa di positivo o negativo, dipendendo, piuttosto, dal contesto politico-industriale entro il quale una tale apertura si realizza, affinché questa non trasformi ciò che dovrebbe essere competizione in un oligopolio di imprese straniere in terra brasiliana.
Dal 2017 e dalla distruzione della cantieristica navale a seguito della Lava Jato, passiamo a contesti più recenti, parzialmente ricostruendo la penetrazione dell’FBI all’interno della complessa macchina giudiziaria brasiliana. Il primo di luglio di questo anno l’eccellente giornale online Pública ha pubblicato un reportagem dal titolo O FBI e a Lava Jato. All’interno di questo articolo si descriveva la parabola dell’agente speciale Leslie Rodrigues Backschies ed il suo sempre maggiore coinvolgimento nelle vicende giudiziarie del Brasile. Dal 2012, infatti, l’agente Backschies si è installata stabilmente in America Latina, vivendo in località segrete e supervisionando gli uffici dell’FBI nelle capitali di Messico, Colombia, Venezuela, El Salvador e Cile, cui vanno aggiunti gli agenti già attivi presso l’Ambasciata statunitense di Brasilia.

A questa altezza della nostra storia giova ricordare che una delle ragioni per la quale il Partito dei Lavoratori (PT) aumentò il budget della Polizia Federale fu proprio per diminuire il più possibile la presenza di agenti speciali dell’FBI sul suolo brasiliano. Ma andiamo avanti, seguendo i passi del nostro agente speciale. Leslie Backschies, in un primo tempo, si occupava in maniera precipua di armamenti e terrorismo, diventando una vera specialista del settore. Parimenti, negli ultimi anni, i suoi ambiti di lavoro sono repentinamente cambiati, passando ad occuparsi, in via esclusiva, di corruzione e riciclaggio di denaro, sempre con riferimento all’America Latina e venendo designata nel 2014 dallo stesso FBI come referente esterno per ciò che concerne le indagini svolte nella Lava Jato. Proprio all’interno di questo ambito, Backschies, senza perdere tempo, si era di nuovo specializzata, questa volta nella legislazione concernente le pratiche di corruzione all’esterno degli Stati Uniti, la controversa FCPA (Foreign Corrupt Practices Act), una legge americana che permette al Dipartimento di Giustizia di investigare e punire negli Stati Uniti ogni atto di corruzione praticato da imprese straniere senza che tali atti siano accaduti su suolo americano. Una autentica mostruosità giuridica, che, di fatto, trasforma agenti speciali come Leslie Backschies in poliziotti con competenze territoriali illimitate, dunque, con un raggio di azione illimitato, con buona pace di ogni argomento a difesa della sovranità nazionale dei singoli Stati oggetto di simili “attenzioni”. È a questo punto che il cerchio si chiude sulla Lava Jato, perché, basandosi su questa legge, il governo statunitense condannò con multe milionarie tanto la Petrobras quanto la Odebrecht, due tra i maggiori trofei della premiata ditta Sérgio Moro-Deltan Dallagnol. La nostra agente speciale, nel frattempo, ha traslocato di nuovo, tornando a vivere negli Stati Uniti, dove attualmente dirige l’Unità di Corruzione Internazionale dell’FBI, che – vedi il caso alle volte! – nel marzo dell’anno passato ha inaugurato un nuovo ufficio a Miami specificamente dedicato ad investigare casi di corruzione riguardanti l’America Latina: il Miami International Corruption Squad. Come già osservai altrove, sebbene siano tramontati i tempi delle portaerei a stelle e strisce a mollo nella Baia di Guanabara, ciononostante, più vivi che mai sembrano essere i tempi della ingerenza statunitense tra regione caraibica e Cono Sur con metodi all’apparenza soft, tra i quali svetta la falsa crociata contro la corruzione.

Sempre seguendo il filo degli eventi, al mese di ottobre 2015 si situa una riunione svolta dalla nostra special agent Backschies in quel di Curitiba, la tana del lupo lavajatista, alla presenza di altri diciotto agenti dell’FBI, procuratori brasiliani e avvocati dei vari pentiti nell’operazione. Una riunione a dir poco informale, considerando che il Ministero della Giustizia brasiliano non ne fu informato, contrariamente a come sarebbe dovuto accadere da prassi. Come informa Pública, l’informalità tra la Backschies e gli uomini della Lava Jato era tanta che la nostra special agent pensò bene di farsi fotografare a lato di un manifesto riferito al progetto di legge riguardante le dieci misure contro la corruzione, che stava tanto a cuore al procuratore Dallagnol, ma che fu respinto dal Congresso Nazionale. Parimenti, stando ai documenti pubblicati nella Vaza Jato e a successive ricerche svolte da Pública, è emerso come non fosse soltanto la Backschies a “coadiuvare” le indagini della Lava Jato, essendo presenti, oltre a lei, almeno altri dodici agenti dell’FBI sul suolo brasiliano. Dodici agenti statunitensi dislocati in varie parti del Brasile per fare cosa esattamente e con l’autorizzazione di quale autorità brasiliana?

Domande, queste, destinate a rimanere senza una risposta soddisfacente; in primo luogo, perché, a quanto pare, il Ministero della Giustizia non avrebbe in alcun momento autorizzato la presenza di questi agenti e poi perché tanto l’FBI quanto l’Ambasciata degli Stati Uniti si rifiutano di specificare pubblicamente le loro mansioni. A dissipare ogni dubbio ha pensato, di nuovo, l’Agenzia Pública, la quale ha ottenuto un documento della Ambasciata statunitense di Brasilia all’interno del quale si trova un annuncio, datato 19 ottobre 2019, dove è spiegato in maniera dettagliata il tipo di lavoro che tali agenti speciali saranno chiamati a svolgere. Il profilo ricercato nel suddetto annuncio era quello di un “investigatore che si occupasse di sicurezza” e che fosse disposto a lavorare su questioni di tipo legale, dedicando il 70% del proprio tempo a non meglio specificate indagini. Indagini, tuttavia, definite nei seguenti termini: “frequentemente altamente controverse” e che “possono avere implicazioni sociali e politiche rilevanti”. L’annuncio, inoltre, specificava che l’investigatore avrebbe dovuto dislocarsi in macchina, barca, treno e aereo fino a trenta giorni e che sarebbe stato destinato “ad aree remote della frontiera e ad ogni regione del Brasile”.
Sulla rilevanza delle indagini concernenti la corruzione straniera svolte dagli agenti speciali dell’FBI, sono illuminanti le parole della stessa Leslie Rodrigues Backschies, la quale, senza alcun filtro, le definisce “politicamente sensibili”. “Questi casi sono molto sensibili politicamente, non soltanto negli Stati Uniti, ma anche all’estero”. E continua: “Noi abbiamo visto presidenti rimossi dall’incarico in Brasile. (…) Se tu guardi a membri di primo rango del governo, là troverai molta sensibilità a livello popolare”.

Il pesce piccolo e quello grosso

In altri termini: se si tratta di fare fuori il pesce piccolo a livello politico, questo non interesserà a nessuno, ma, se riesci a trovare lo spazio per coinvolgere nelle tue indagini una figura politica di primissimo piano, in quel caso l’opinione pubblica sarà facilmente manipolabile e i risultati, proprio in Brasile, sono sotto gli occhi di tutti: l’impeachment di Dilma Rousseff nel 2016 senza alcun valido fondamento di tipo legale e le surreali condanne dell’ex Presidente Lula da parte di Sérgio Moro e Gabriela Hardt. La sensibilità, dicevamo. Dal 2015, già durante la presidenza di Barack Obama, gli Stati Uniti ne hanno dimostrata parecchia rispetto al controverso capitolo della corruzione internazionale. A questa data risale, infatti, il primo riferimento a questo precipuo reato, definito nei termini di un punto cui dedicare la massima attenzione. Attenzione che nel marzo del 2015 ricevette una sanzione del tutto tangibile con l’apertura, da parte dell’FBI, di tre uffici, rispettivamente a New York, Los Angeles e Washington e l’aumento del numero di agenti destinati a investigare crimini concernenti la corruzione internazionale, i quali passarono da 10 a 30. Ancora, nel 2017, sotto la presidenza di Donald Trump, il piano strategico di sicurezza nazionale incluse, per la prima volta, la lotta alla corruzione internazionale tra le priorità per quanto concerne la sicurezza interna dei cittadini statunitensi. In altre parole, se la Petrobras o la Odebrecht pagano una tangente a un politico brasiliano per la realizzazione di un appalto, ciò, applicando una versione quantomeno fantasiosa della eterogenesi dei fini, costituirebbe una conclamata minaccia per la sicurezza interna del popolo americano. Direi che non fa una piega.

Sempre nel 2017, infine, i finanziamenti stanziati a favore dell’FBI per investigare casi di corruzione transnazionale aumentarono del 300%, secondo quanto dichiarato dall’ex direttore dell’unità dell’FBI dedicata alla lotta contro la corruzione internazionale George “Ren” McEachern. Alla luce degli elementi riportati nel presente articolo, non pare dunque eccessivo osservare come la corruzione internazionale sembri costituire, in ultima istanza, un lucroso affare per tutti gli attori sociali in esso coinvolti: per Washington, autentico cavallo di Troia al fine di ristabilire la sua politica di egemonia in tutta l’America Latina, ammantata di crociata a favore della legalità e del buongoverno, come pure per l’FBI, il quale in questo modo può vedersi concessi fondi pressoché infiniti per poter svolgere, nella migliore maniera possibile, ciò che da sempre rappresenta la propria specialità: gestire i crimini e servirsene per superiori finalità di tipo geopolitico.

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