I soldi che mancano per il lavoro di cittadinanza

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2017-02-28

Come si immaginava, l’«asso nella manica» dell’ex premier somiglia sospettosamente e pericolosamente al piano del governo per la povertà. Con un dettaglio in più

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Oggi Repubblica mette in fila le proposte dei partiti per il Welfare e ci offre così la possibilità di tornare sul cosiddetto “lavoro di cittadinanza” annunciato da Matteo Renzi in un’intervista al Messaggero domenica scorsa in risposta in risposta al reddito di cittadinanza cavallo di battaglia del MoVimento 5 Stelle. Come si pensava ieri, l’“asso nella manica” dell’ex premier somiglia sospettosamente e pericolosamente al piano del governo per la povertà: chi è in condizioni di disagio sociale riceve un sostegno dallo Stato, ma in cambio deve formarsi. L’obiettivo è duplice: togliere le persone dalla povertà e permettere loro di acquisire competenze per rientrare nel mondo del lavoro. Ovvero, quello che più o meno è già previsto dalle leggi in materia. La misura sarebbe gestita centralmente e non affidata ai comuni utilizzando i soldi già stanizati per la povertà, ovvero 1,5 miliardi.

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L’infografica di Repubblica sui programmi dei partiti per il Welfare (28 febbraio 2017)

Il problema è che i fondi non bastano. lo stanziamento del governo va a toccare soltanto una piccola parte di chi ne avrebbe la necessità. Prima, la povertà toccava solo alcune parti della nostra società, ora le raggiunge tutte. Ha risparmiato solo i più anziani, i nuclei con capofamiglia sopra i 65 anni. Ma ha travolto le nuove generazioni: lì dove il capofamiglia ha meno di 44 anni è salita in otto anni dal 3,2 all’8,1%; dove ha meno di 34 anni si è impennata dall’1,9 al 10,2%. In quelle case vivono oltre un milione di minorenni per cui ogni mese è a rischio l’accesso ai beni di prima necessità.

Un assegno mensile del valore massimo di 400 euro per famiglia che cerca di uscire dalla logica dell’assistenzialismo, chiedendo ai beneficiari di impegnarsi nella formazione e nella ricerca un impiego, e di far rispettare ai figli gli obblighi di frequenza scolastica. Testato nel 2013 dal governo Letta in dodici grandi città, l’anno scorso la sperimentazione è stata estesa dal governo Renzi sotto l’etichetta di sostegno per l’inclusione attiva, con risorse per 750 milioni. L’esecutivo ora vuole rendere il reddito di inclusione strutturale dal 2017, accelerando l’iter della delega in Senato o agendo con un decreto. Lo stanziamento già nero su bianco di oltre un miliardo permetterà di allargare la platea dei beneficiari.
Nel 2016 l’assegno, 80 euro al mese per ogni componente della famiglia, doveva raggiungere circa 200 mila nuclei con reddito Isee inferiore ai 3mila euro l’anno, e almeno un figlio minorenne. Fanno poco più di 800 mila individui, di cui la metà under 18. Con le risorse extra quei numeri potrebbero salire della metà. Ma non basterà ancora per sostenere tutti i minori in povertà. E tanto meno permetterà di raggiungere l’intera platea delle famiglie in difficoltà. Secondo i calcoli dell’Alleanza contro la povertà, il gruppo di 35 associazioni che per primo ha proposto il reddito universale di inclusione, presente in quasi tutta Europa tranne Italia e Grecia, anche con 1 miliardo e mezzo si coprirebbe solo il 30% dei nuclei. Per renderlo strutturale ci vorrebbero circa 7 miliardi l’anno, lo 0,4% del Pil. Più o meno la distanza che oggi corre tra la spesa pubblica destinata alla lotta contro la povertà in Italia (lo 0,1% del Pil) e la media comunitaria (0,4%).

Insomma con il miliardo e mezzo  arriverebbe a toccare il 30% dei nuclei che hanno necessità, mentre lo stanziamento necessario per aiutare tutti ammonta a sette miliardi. Come trovarli? Per ora nessuno lo ha spiegato.

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