Cosa si sa dell’impeachment di Trump

di Armando Michel Patacchiola

Pubblicato il 2019-09-26

Nonostante Donald Trump continui a parlare di «caccia alle streghe» si dovranno attendere tutti i dettagli per avere un giudizio definitivo sul suo operato e valutare se abbia commesso un reato o semplicemente una condotta al limite della morale

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Martedì’ 17 settembre, durante l’anniversario della commemorazione della cittadinanza americana e della Costituzione siglata nel 1878, l’ispettore generale della comunità di intelligence (ICIG) Michael K. Atkinson ha formalmente notificato al Congresso degli Stati Uniti, l’organo legislativo dello stato, che l’amministrazione degli Stati Uniti d’America gli stava vietando di presentare un documento con delle informazioni molto importanti e potenzialmente compromettenti su Donald Trump, il 45 presidente degli Stati Uniti d’America. L’impeachment, causato dal presunto reato di Trump, è esploso lunedì sera, il giorno prima dell’annuncio, supportato da almeno 14 parlamentari. Nancy Pelosi, speaker della Camera dei Rappresentanti, la camera bassa del Parlamento, era incerta se fosse giusto e vantaggioso aprire l’impeachment in piena campagna elettorale, ma alla fine ha ceduto alle pressioni della maggioranza del Partito Democratico e martedì 24 settembre lo ha annunciato. Durante il discorso la deputata californiana ha definito il fatto una «violazione della legge». Atkinson è venuto in possesso del documento da una talpa all’interno dell’intelligence americana lo scorso 12 agosto, trovando quanto ricevuto sin da subito credibile e «molto urgente». Dopo due settimane, lunedì 26 agosto, ha invitato tutta la documentazione a Joseph Maguire, direttore dell’intelligence nazionale recentemente nominato da Trump e suo braccio destro nei servizi segreti. Maguire ha però violato quanto sancito dallo statuto “Intelligence Community Whistleblower” del 1998 che gli imponeva di denunciare il reclamo ai comitati di intelligence della Camera e del Senato entro una settimana. Così, il 9 settembre, Atkinson ha scritto ai comitati per renderli consapevoli sia dell’esistenza della denuncia degli informatori, sia dell’incapacità di Maguire di denunciarlo.

La soffiata su Trump è un «fatto urgente»?

Come riporta il “New Yorker”, una rivista molto apprezzata negli Stati Uniti, il giorno successivo il presidente della commissione dei servizi Adam Schiff ha scritto a Maguire accusandolo di aver infranto la legge chiedendogli cosa avesse sostenuto l’informatore e se qualcun altro nel ramo esecutivo fosse coinvolto nella decisione di celare il caso al Congresso. Il 13 settembre il consigliere generale di Maguire Jason Klitenic ha risposto a Schiff dicendo che l’invito di Atkinson è stato respinto su consiglio del Dipartimento di Giustizia perché a loro avviso la denuncia non fosse «urgente» e avrebbe «comportato comunicazioni riservate e potenzialmente privilegiate». Atkinson, che è stato nominato direttamente da Trump lo scorso maggio, ha nel suo ruolo l’incarico di fare da raccordo tra i vari servizi segreti, promuovendone l’efficienza e facendo quanto più opportuno, a prescindere dalle conseguenze politiche o personali. Nel produrre la documentazione Atkinson si è attenuto alla lettera quanto stabilito dall’”Intelligence Community Whistleblower” che stabilisce che un fatto sia «urgente» quando si riferisce «al finanziamento, all’amministrazione o all’esercizio di un’attività di intelligence nell’ambito dell’autorità del direttore dell’intelligence nazionale che coinvolge informazioni classificate». Schiff ha però respinto questa spiegazione definendola come una «distorsione radicale», insistendo sul fatto che in questo caso la DNI non possa scavalcare l’ispettore generale. A giustificare parzialmente l’atteggiamento del governo statunitense c’è il fatto che la soffiata non sarebbe «frutto di una conoscenza diretta» né sarebbe abbastanza dettagliata e possibile di errori visto che non sarebbe stata estrapolata durante una diretta mansione della talpa. Per questo motivo, secondo l’amministrazione statunitense, accettando «testimonianze terze» l’ispettore generale dell’ICIG avrebbe sbagliato. Inoltre, come ha sottolineato il “Washington Post”, non ci sono precedenti con cui confrontare l’accaduto. Robert S. Litt, un esperto in materia, ha spiegato che potrebbero esserci ulteriori cavilli che possano giustificarne la censura. Litt precisa però che non spetta al DNI sancire se un’istanza dell’ICIG sia urgente o meno e quindi eventualmente procrastinabile. Il DNI ha invece fatto bene a seguire il parere dell’ufficio di consulenza legale del Dipartimento di Giustizia (OLC) perché i suoi pareri sono vincolanti e autorevoli. L’atteggiamento censorio dell’amministrazione può inoltre essere giustificato dal fatto che in assenza di reato essa sia libera di tenere segreti alcuni colloqui e che in tal caso la DNI non può fare altro che obbedire. Ma capire se un fatto sia o meno reato è complicato e non sempre immediato.

Trump e Giuliani hanno commesso un reato?

Nonostante Donald Trump continui a parlare di «caccia alle streghe» si dovranno attendere tutti i dettagli per avere un giudizio definitivo sul suo operato e valutare se abbia commesso un reato o semplicemente una condotta al limite della morale. L’aver commesso un reato aprirebbe molti problemi per Trump che pagherebbe un prezzo politico molto alto, ben più alto di quello di aver cercato di mettere in cattiva luce un avversario. Mercoledì 25 settembre la Casa Bianca ha rilasciato un documento di cinque pagine, parziale, con alcuni dei principali passaggi della conversazione. Si tratterebbe di un anticipo sulla diffusione della telefonata, di circa trenta minuti, e di alcuni documenti di supporto inizialmente previsti per il prossimo weekend. Secondo quanto emerso inizialmente la talpa avrebbe segnalato solo una telefonata «preoccupante» tra Trump e un leader straniero successivamente identificato in Volodymyr Zelensky, eletto il 20 maggio scorso presidente dell’Ucraina. Inizialmente non era chiaro cosa ci fosse di preoccupante, poi sono emersi i dettagli della telefonata, avvenuta lo scorso 25 luglio. Durante la chiamata Trump avrebbe chiesto a Zelensky di indagare negli affari in Ucraina di Hunter Biden, figlio di Joe Biden, ex vice presidente degli Stati Uniti durante i due mandati di Barack Obama, e ora suo principale rivale nella corsa alla Casa Bianca del 2020. Domenica 22 settembre Trump ha confermato l’indiscrezione emersa nei giorni scorsi secondo cui la scorsa estate avrebbe ritardato 400 milioni di dollari in aiuti militari e sicurezza, che erano già stati disposti dal Congresso statunitense. Trump ha però giustificato il blocco degli aiuti all’Ucraina, un paese in guerra dal 2014, subordinando il blocco al pagamento delle altre quote di aiuti da parte degli altri alleati occidentali. Trump ha così scansato l’ipotesi che si sia trattato di un ricatto o di «un quid pro quo» per sollecitare indagini a lui favorevoli. Nei giorni scorsi, durante una conferenza stampa dal prato della Casa Bianca, Trump ha chiarito che la conversazione fosse di circostanza, concentrata in larga parte su congratulazioni. Trump ha anche ammesso che durante la telefonata si sia parlato molto di corruzione, come poi hanno confermato le intercettazioni. «Non vogliamo che la nostra gente, come il vicepresidente Biden e suo figlio creino la corruzione in Ucraina» ha detto ai giornalisti. Il principale sospetto del tycoon è che Biden si sia comportato in modo improprio durante la sua vicepresidenza e che abbia usato la sua influenza per chiedere l’allontanamento al procuratore che aveva indagato sulla Burisma Holdings, la compagnia ucraina di gas in cui Hunter Biden era membro del consiglio di amministrazione. Lo stesso Hunter, che secondo Trump si sarebbe vantato di aver bloccato le indagini, in passato si sarebbe scagliato contro il procuratore, un fatto che è stato cavalcato dagli oppositori.

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Il network americano Bloomberg ha però smussato queste critiche mettendo in risalto come non sia chiaro se le accuse di Hunter siano state lanciate quando la Burisma Holdings era sotto accusa o successivamente. Rimangono incerti anche i giudizi riguardanti il procuratore ucraino, ritenuto corrotto per alcuni e molto preparato per altri. In più di una circostanza durante la telefonata con Zelensky Trump gli ha tessuto le lodi, sollecitando il presidente Zelensky a proseguire in quel solco. Tra le richieste esplicite fatte da Trump all’ex comico e attore ci sarebbe quella di avviare una maggiore collaborazione con due suoi uomini fidati: il consigliere per la sicurezza informatica della Casa Bianca ed ex sindaco di New York Rudolf Giuliani e il capo del dipartimento di Giustizia William Barr. Una richiesta che durante gli ultimi mesi si sarebbe ripetuta per ben otto volte e che, leggendo le trascrizioni è sembrata una precondizione per migliorare i rapporti tra i due paesi. Zelensky avrebbe effettivamente aperto a un possibile colloquio con Giuliani, chiedendo se fosse in possesso di informazioni utili alle indagini. Ma l’incontro non è avvenuto visto che il viaggio, inizialmente previsto per maggio, è poi saltato. Ad agosto però l’avvocato personale di Trump avrebbe incontrato un alto ufficiale ucraino a cui avrebbe chiesto di indagare sulle cose più oscure riguardanti i Biden. Mettere in cattiva luce il principale candidato dei rivali Democratici sarebbe positivo in vista della riconferma alla Casa Bianca. Su questa linea in un’intervista al “New York Times” Giuliani ha ammesso che questo sarebbe «molto, molto utile» per il suo fedele alleato e amico, nonostante questo possa sembrare «improprio» e «lontano [dagli standard] dalla politica estera». Giuliani ha dichiarato di non vedere «nulla di illegale in questo» visto che le indagini erano già in atto. Da quanto emerso finora è difficile propendere che quanto emerso sia sanzionabile come un reato. Ne è convinto anche Renato Mariotti che su POLITICO ha scritto che questa condotta, evidenziata nel filone vero e proprio dell’impeachment, non sia propriamente sancita come un reato nel sistema americano, se non nell’estrema ratio dell’impeachment, che però prevederebbe un alto tradimento di Trump. Nella storia degli Stati Uniti solo in altre tre circostanze la messa in stato di accusa è stata avviata: con Andrew Johnson nel 1868 e più recentemente con Bill Clinton nel 1998. Entrambi i presidenti sono stati poi assolti e hanno completato il loro mandato. Al contrario di quanto accaduto con Richard Nixon che nel 1974 si dimise anzitempo per evitare di subire il giudizio al senato provocato dal caso Watergate, un caso di spionaggio ben più grave di quello di Trump. Secondo gli esperti anche nel caso di Trump, a meno di clamorosi risvolti, l’impeachment non sarà votato. In primis perché allo stato attuale delle cose sarà facilmente evitabile dai Repubblicani, che al Senato hanno una discreta maggioranza di 53 senatori su 100, sufficiente per evitare problemi. E poi perché una messa in stato di accusa avrebbe ripercussioni troppo negative per il fronte Repubblicano, che non ha di certo brillato durante le elezioni di midterm dello scorso novembre.

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