Di Maio, l’ILVA e la paura di trovarsi 14mila operai sotto il ministero

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2018-06-09

L’anima ambientalista del M5S ha già deciso: l’ILVA si deve chiudere senza se e senza ma. Ma il ministro comincia a capire cosa rischia e quello che potrebbe succedere in caso di rottura dell’accordo con MITTAL. E prepara una via d’uscita diplomatica e furbetta

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Il deputato “consigliere” economico Lorenzo Fioramonti, continua a parlare di “fallimento industriale e finanziario”, l’operaio Massimo Battista (oggi consigliere comunale M5S a Taranto) continua la sua battaglia contro Mittal e gli operai “che ancora credono che quel rottame vecchio sia il futuro”. L’eurodeputata grillina Rosa D’Amato ha lasciato l’ultimo tavolo con i sindacati, venti giorni fa, al grido di “Programmiamo la chiusura. L’obiettivo era e resta questo!”. Ma, spiega oggi Paola Zanca sul Fatto, Luigi Di Maio non ha ancora deciso come muoversi sul dossier più scottante che troverà sulla scrivania del ministero dello Sviluppo quando finalmente troverà il tempo, tra una campagna elettorale e l’altra, di mettersi a lavorare.

Di Maio, l’ILVA e la paura di trovarsi 14mila operai sotto il ministero

L’ILVA è infatti una patata talmente bollente che Giggetto ha trovato anche il tempo, ieri, di trattare Beppe Grillo come un dissidente qualsiasi che “parla a titolo personale” quando il Garante del MoVimento 5 Stelle ha tirato fuori la sua proposta di chiudere e bonificare tutto con i soldi dell’Europa. Più prudente, Di Maio ha detto che aspetta l’incontro con Arcelor-Mittal e con i sindacati prima di prendere una decisione. Il tempo, in ogni caso, stringe:

Il travaglio dell’acciaieria di Taranto-commissariata dal 2012, in amministrazione straordinaria dal 2015 – porta la scadenza del 1 luglio, quando la cordata di Arcelor Mittal prenderà possesso degli stabilimenti. L’accordo con i sindacati ancora non c’è, la risoluzione del nodo tra salvaguardia dell’occupazione e tutela ambientale neanche e i nuovi arrivati allo Sviluppo Economico si stanno rimettendo a studiare le carte: Di Maio, lo ha ripetuto ieri, deciderà il da farsi solo dopo aver incontrato le parti coinvolte nella trattativa.

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I lavoratori di ILVA (Corriere della Sera, 3 dicembre 2017)

Sull’esito del colloquio,però, qualcosa è già scritto, nella testa del leader M5S e dei suoi collaboratori: primo, non si può in venti giorni far saltare tutto quello che è stato fatto finora; secondo, se l’accordo non regge, il 1 luglio i 13800 lavoratori Ilva si ritroveranno davanti al portone del ministero, non proprio un bel biglietto da visita per il governo del cambiamento che ha giurato un mese prima. Così, con le mani piuttosto legate, Di Maio si accinge a “valutare la continuità”, provando a inserire qualche garanzia in più sul fronte ambientale: avrebbe voluto andasse diversamente, ma sa che le condizioni di partenza non si possono cambiare senza rischiare pesanti contraccolpi.

Cosa rischia Di Maio sull’ILVA

Di Maio rischia di perdere subito la faccia sull’ILVA se propone la stessa soluzione in continuità con l’odiato predecessore Carlo Calenda. D’altro canto il contratto è già siglato e per cancellarlo dovrebbe intervenire l’intero governo con un decreto. Che poi finirebbe automaticamente in tribunale corredato di sontuosa richiesta di risarcimento danni da parte di chi ha firmato e non accetta di essere “superato” da un cambio di maggioranza, peraltro inidoneo a essere di per sé causa e ragione di nullità di accordi firmati in precedenza. Ricorda Repubblica che Mittal si è impegnata a investire 2,4 miliardi, di cui 1,2 sulla parte ambientale e 1,2 in investimenti produttivi. In più, pagherà ai creditori un miliardo e 800 milioni. C’è poi il miliardo che lo Stato ha recuperato dagli ex proprietari, i Riva, per le bonifiche. E la promessa di assumere 10mila operai, spostando sulle bonifiche attraverso Invitalia tutti gli altri. Un investimento complessivo di 5 miliardi e 300 milioni difficile da far saltare, anche per chi ha promesso di voler cambiare tutto.

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L’alternativa che Di Maio si trova di fronte è quindi quella classica del MoVimento 5 Stelle al governo: i suoi hanno promesso cose difficili o impossibili da realizzare e lui adesso deve trovare il modo per non finire davanti a un tribunale a rimettere a posto mettendo mano al portafogli (del ministero, e quindi degli italiani) per riparare tutto. Un’alternativa che già in altre occasioni ha consigliato di seguire il motto Adelante, Pedro, con juicio perché la folla potrebbe in qualsiasi momento arrabbiarsi e chiedere la testa dell’uomo in carrozza.

La Trattativa Realtà-M5S

E allora che si fa? Un esempio di situazione piuttosto simile è quello che ha vissuto Virginia Raggi a Roma con lo stadio a Tor di Valle: in campagna elettorale aveva promesso la cancellazione del progetto, da consigliera aveva presentato esposti su esposti  scritti o suggeriti da comitati e comitatini su presunte irregolarità che i giudici hanno archiviato facendosi una bella risata. Da sindaca ha finalmente compreso – e lo ha scritto sul blog di Beppe Grillo – che fermare tutto avrebbe portato a una richiesta risarcitoria tale da mandare il Comune in bancarotta, e ha usato l’argomento per zittire chi, come Roberta Lombardi, voleva spingerla alla guerra al grido di Armiamoci e partite!.

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I numeri dell’ILVA (Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017)

Allora la sindaca ha giocato la carta della diplomazia, consapevole anche del fatto che la proprietà giallorossa non aveva altre sponde politiche a cui appoggiarsi vista la tattica suicida del Partito Democratico in Regione e al Comune: ha firmato un accordo peggiorativo per la città con la rinuncia alla metà delle opere pubbliche promesse risparmiando però così sulle cubature, che erano la parte più “vistosa” e quindi criticabile del progetto. E ha chiuso un compromesso onorevole che ha visto vincenti la sindaca e i proponenti, non certo i cittadini. Ma intanto ha chiuso la querelle e il dossier. Una strategia vincente che ora Di Maio potrebbe riciclare con l’ILVA: trovare un accordo migliore dal punto di vista ambientale da sbandierare ai quattro venti e zittire con il Metodo Casaleggio i dissenzienti del partito. Evitando così di trovarsi non i tifosi giallorossi al Campidoglio ma gli operai al ministero: molto peggio di quello che sarebbe potuto succedere a Virginia Raggi.

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