Il modello British Steel per salvare ILVA

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2019-11-17

Il governo britannico ha trovato un accordo con Jingye per investire 1,2 miliardi di sterline nel prossimo decennio in cambio di garanzie da parte dell’esecutivo per 300 milioni di prestiti e sgravi. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, era proprio in Cina quando è scoppiata la bomba Ilva

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Il caso di British Steel potrebbe essere preso come modello per il salvataggio di ILVA. Il Sole 24 Ore oggi illustra le intenzioni del governo che, mentre i commissari denunciano ArcelorMittal per il programma di spegnimento degli altoforni (che potrebbe portare anche danni ambientali),  incontrerà i consulenti di Ernst&Young che hanno lavorato alla proposta di acquisto arrivata dalla società cinese all’azienda siderurgica britannica, molto simile all’ex Ilva per le criticità societarie e ambientali. Dallo scorso maggio era finita in amministrazione straordinaria, con perdite calcolate in un milione di sterline al giorno.

Il modello British Steel per salvare ILVA

Il governo britannico ha trovato un accordo con Jingye per investire 1,2 miliardi di sterline nel prossimo decennio in cambio di garanzie da parte dell’esecutivo per 300 milioni di prestiti e sgravi. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, era proprio in Cina quando è scoppiata la bomba Ilva. Durante gli incontri non aveva negato di aver riscontrato interesse, ma al rientro aveva detto ai microfoni di Radio24: «Se mi chiedete se abbia cercato di piazzare Ilva ai cinesi la risposta è no. C’è Mittal e non possiamo permettere che se ne vada». Ieri il leader M5S è tornato ad attaccare la multinazionale e, in perfetta sintonia con il segretario della Cgil Maurizio Landini, ha ribadito che «parlare del Piano B per Taranto significa dare la migliore via d’uscita ad ArcelorMittal».

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Dove va l’acciaio di ILVA (Corriere della Sera, 14 novembre 2019)

Intanto l’esposto dei commissari riprende i contenuti del ricorso cautelare urgente, ex articolo 700, consegnato venerdì al Tribunale di Milano e sul quale ha acceso un faro anche la Procura milanese avviando un’indagine per ora senza ipotesi di reato. Nel ricorso presentato a Taranto, i commissari indicano «fatti e comportamenti inerenti al rapporto contrattuale con Arcelor Mittal» che ritengono «lesivi dell’economia nazionale» e chiedono ai magistrati tarantini «di verificare la sussistenza di ipotesi di rilevanza penale». E si ferma anche l’indotto:

Da domani le imprese non faranno più “girare” i cantieri in ArcelorMittal: nè lavori, nè prestazioni, nè forniture. Potrebbe essere assicurata l’attività per i general contractor di Arcelor come, per esempio, Cimolai (che si sta occupando della costruzione della copertura dei parchi minerali) o Paul Whurt perché stanno puntualmente pagando i fornitori, ma non è certo. Perché si prevede il blocco delle portinerie da dove entrano i mezzi. Un ritorno, in sostanza, alla protesta di gennaio 2015, quando gli autotrasportatori fermarono i mezzi ed organizzarono i picchetti.

Un presidio che durò circa 40 giorni, sin quando poi fu trovata una mediazione sul pregresso e sulle date dei pagamenti del corrente. Oggi come allora la motivazione è analoga. Nel 2015, infatti, il passaggio di Ilva dalla gestione commissariale all’amministrazione straordinaria lasciò a terra crediti per circa 150 milioni che le imprese avevano maturato nel periodo antecedente l’insediamento dell’amministrazione straordinaria. Soldi che attendono di riavere anche in parte, ma la procedura al Tribunale di Milano è ancora aperta e col recesso di Arcelor si teme che sfumi il miliardo e 800 milioni del prezzo dell’acquisto.

ILVA e i 500 milioni di scorte spariti

E c’è anche un caso che riguarda 500 milioni di scorte spariti dal magazzino, altri cento milioni di beni «esclusi» dall’affitto di azienda, che Arcelor avrebbe potuto/dovuto comprare, e che invece si sarebbero volatilizzati.

I commissari del MISE nel documento inviato al capo della Procura non formulano ipotesi di reato – lasciando l’iniziativa all’inquirente, come è normale – ma le accuse lanciate verso le controparti del contratto di affitto di azienda non lasciano spazio alla fantasia. E se finora nel turbine delle dichiarazioni pubbliche era emerso “solo” il danno definitivo che la chiusura degli impianti provocherebbe al distretto territoriale e al settore economico (ma qui riqualificato dagli esponenti come «grave danno all’economia nazionale», reato più impegnativo) nelle carte si leggono ipotesi di comportamenti predatori non insignificanti, pur in una partita che ha enormi interessi in ballo.

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L’ex ILVA in cifre (La Stampa, 6 novembre 2019)

Secondo i commissari, nonostante Arcelor Mittal non consenta ispezioni, fotografie e informazioni provenienti dall’interno raccontano che i magazzini consegnati pieni nel giugno 2017 oggi sarebbero vuoti (500 milioni il valore iniziale), e dicono anche che i beni esclusi dal contratto di affitto – e che ArcelorMittal avrebbe potuto riscattare a 100 milioni – si sono volatilizzati, incuranti di una fattura da 82 milioni più Iva che li insegue dal maggio scorso.

L’esposto dà atto che ArcelorMittal ha interrotto qualsiasi ordine ed acquisto di materie prime, ha rifiutato i nuovi ordini dei clienti, ha interrotto i rapporti con i subfornitori e ha interrotto anche l’avanzamento del Piano Ambientale, abbandonando le attività di manutenzione degli impianti da mesi portate avanti con modalità non corrette e poco diligenti.

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