Le dimissioni di Sérgio Moro con vista sulla presidenza

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2020-04-25

Le dimissioni di Moro sono il gesto, insieme opportunistico ed estremo, di una persona che vuole mettere al sicuro il proprio capitale politico, distanziandosi il più possibile da una presidenza che ha ormai, irreversibilmente, imboccato la via del tramonto

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Non serviva uno specialista in questioni politiche brasiliane per capire che, nell’attuale caotico scenario in cui questo governo versa ormai da settimane e ancor più dopo le dimissioni del Ministro della Salute, Luiz Henrique Mandetta, il prossimo ad uscire di scena sarebbe stato il Ministro di Giustizia e Pubblica Sicurezza, Sérgio Moro, il quale, appunto, con una non troppo polemica conferenza stampa, nella giornata di oggi, venerdì 24 aprile, ha dato le dimissioni. Assai interessanti sono le ragioni che Moro ha portato per giustificare le proprie dimissioni, ossia a dire, il cambio ai vertici della Polizia Federale e le sempre più pressanti richieste dell’inquilino dell’Alvorada di essere messo al corrente delle indagini in corso svolte dalla Polizia Federale.

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Bolsonaro, addio! Le dimissioni di Sérgio Moro con vista sulla presidenza o sul Supremo Tribunale Federale

Pertanto, di fronte a simili pressioni politiche, unite alla volontà di Bolsonaro di cambiare i vertici della Polizia Federale, che in Brasile, giova ricordarlo, svolge funzione di polizia giudiziaria, Sérgio Moro non ha potuto fare altro che rassegnare le dimissioni. Nulla da eccepire a questa postura di Moro, ammesso che le cose stiano realmente così. Ma realmente così non stanno. Moro – arrivato, pur indirettamente, ad elogiare i governi di Lula e Dilma, i quali (sbagliando) mai si sono messi in mezzo alle indagini della Polizia Federale – ha dichiarato che l’accordo con Bolsonaro e col generale Heleno, affinché lui assumesse il Ministero della Giustizia, era che avrebbe avuto totale carta bianca nella lotta alla corruzione, alla criminalità comune e a quella organizzata. Sarebbe troppo lungo, in questa sede, spiegare nel dettaglio l’ipocrisia insita in queste presunte lotte contro il “male” combattute da Moro, soprattutto alla luce della cosiddetta ‘Vaza Jato’, perciò, lasciamo di lato questo assunto e procediamo oltre: la carta bianca, lasciata da Bolsonaro a Moro, per continuare la sua crociata contro corruzione e criminalità, comune e organizzata.

 

flavio bolsonaro

Se la questione non fosse tanto grave, una volta udite queste parole di Moro, ci sarebbe da ridere e da ridere copiosamente. Sérgio Moro finge di non sapere con chi, all’epoca dell’accettazione dell’incarico, si fosse messo in affari. Davvero l’ex Ministro della Giustizia ed ex giudice-“eroe” della Lava Jato non era a conoscenza di chi fosse Jair Bolsonaro in quel di Rio de Janeiro e, più ancora, di chi fossero i figli di Jair Bolsonaro in quel di Rio de Janeiro? Personaggi, non solo e non tanto, coinvolti in elaborati schemi di corruzione, ma vero e proprio braccio politico delle milizie paramilitari della zona nord e della zona est della capitale fluminense e con esse direttamente coinvolti in schemi di voti di scambio e lavaggio di denaro. Tutte cose ampiamente note a chi si occupa di politica interna brasiliana e sulle quali ci siamo soffermati su queste stesse pagine, tempo fa, in un lungo reportage, in seguito alla morte di Adriano Magalhães da Nóbrega, meglio conosciuto come il Capitano Adriano, miliziano direttamente legato alla famiglia Bolsonaro.

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In quel lungo articolo, tra le altre cose, chi scrive metteva in evidenza come il pacchetto anticrimine di Moro abbassasse di un anno la pena minima prevista per il reato di formazione di milizia, al contrario di quanto avveniva mediante l’articolo 288-A del Codice di Procedura Penale, mandando in tal modo, di fatto, un messaggio di impunità alle stesse milizie. Tutto questo in una fase di avanzamento brutale del potere delle milizie paramilitari, in tutto il Brasile, le quali stanno contendendosi ampie porzioni di territorio con le classiche organizzazioni criminali, quali PCC e Comando Vermelho. I summenzionati soggetti, i miliziani, appunto, rappresentano, da sempre, la quintessenza del bolsonarismo, ciò da cui proveniva la ‘carta bianca’ garantita a Moro per combattere il crimine organizzato, quello classico, però, impersonato da PCC e Comando Vermelho, organizzazioni in aperto conflitto con le formazioni miliziane all’opera non solo a Rio de Janeiro. Ma andiamo avanti. Moro e quella carta bianca, dicevamo. Davvero l’ex ministro non era al corrente di tutte le magagne giudiziarie, che, ben da prima della sua nomina al dicastero della Giustizia, riconducono al nome della famiglia Bolsonaro?

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I sospetti, soprattutto riguardanti Carlos Bolsonaro, con riferimento all’omicidio della deputata Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes, o lo schema di corruzione che coinvolge Flávio Bolsonaro e l’onnipresente Fabrício Queiroz, ovviamente amico di famiglia dei Bolsonaro, la cosiddetta ‘rachadinha’ avvenuta alla Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro nel corso di anni? Davvero Sérgio Moro non ha mai sentito parlare di gabinetto dell’odio e milizie digitali, entrambi direttamente riferibili, di nuovo, al nome di Carlos Bolsonaro? Davvero il giudice-“eroe” della Lava Jato pensava che si trattasse di chiacchiere da bar, messe in piedi da pericolosi circoli petisti al fine di far fuori l’attuale inquilino dell’Alvorada, alias Jair Bolsonaro? In altre parole, Sérgio Moro ritiene che l’opinione pubblica brasiliana sia tanto facilmente manipolabile al punto di credere che, quando lui assunse il Ministero di Giustizia e Pubblica Sicurezza, la carta bianca offertagli da Bolsonaro fosse realmente una carta bianca?

La ragione delle dimissioni di Sergio Moro

Domande retoriche, fondate sulla salda convinzione, da parte di chi scrive, che la verità sia un’altra e che le dimissioni di Sérgio Moro siano solo parzialmente spiegabili con le interferenze di Bolsonaro nelle indagini della Polizia Federale, volte ad investigare eventuali reati commessi da lui, nell’esercizio delle sue funzioni, o dai figli Flávio e Carlos. Quali che siano le giustificazioni portate da Moro nel corso della sua conferenza stampa, vi è che le dimissioni arrivano nel momento di maggiore crisi della presidenza di Jair Bolsonaro; una crisi, che appare ormai irreversibile. Volendo usare un’immagine icastica: quando la barca affonda, i topi abbandonano la nave. Questa è in sintesi la ragione delle dimissioni di Sérgio Moro, che, c’è da credere, saranno propedeutiche a quelle di Paulo Guedes, da giorni in rotta di collisione con la cúpula militare a causa del Piano Marshall, post-Covid-19, ampiamente voluto dal generale Braga Netto (dubito, infatti, che Bolsonaro sappia di cosa si tratta…).

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Le dimissioni di Moro sono, dunque, il gesto, insieme opportunistico ed estremo, di una persona che vuole mettere al sicuro il proprio capitale politico, distanziandosi il più possibile da una presidenza che ha ormai, irreversibilmente, imboccato la via del tramonto. Un tramonto, che avverrà, sotto forma di impeachment o di rinuncia (in realtà, in questa situazione, farà poca differenza), appena matureranno i tempi costituzionali necessari all’assunzione dell’incarico da parte del generale Hamilton Mourão. In altre parole, le dimissioni di Moro, senza dubbio favorite anche dalle pressioni di Bolsonaro, rispondono ad un preciso calcolo politico. Calcolo politico, che, sic stantibus rebus, conduce a due soluzioni, entrambe da ritenersi, in egual misura, plausibili: una candidatura alla presidenza nel 2022, magari in un ticket con Doria o Mandetta, oppure, una volta che Mourão diventerà il 39. Presidente del Brasile, una nomina al Supremo Tribunale Federale di Brasilia. Ciò che è certo è che, a partire da oggi, Moro farà di tutto per distanziare la sua immagine politica da quella di Bolsonaro e dal bolsonarismo e per rivendicare, in totale autonomia, i risultati che lui ritiene avere raggiunti da Ministro della Giustizia.

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Uno scenario, quello che stiamo vivendo in queste ore in Brasile, largamente prevedibile sin dall’inizio: l’incapacità di Bolsonaro di assumere un incarico tanto complesso come quello di Presidente, la presenza sempre più incidente della cosiddetta cúpula militare, il totale fallimento dei deliri economici di Paulo Guedes e, da ultimo ma non per ultimo, il fatto che Sérgio Moro – allorquando la baracca bolsonarista cominciasse il suo, anch’esso prevedibile, processo di smottamento – avrebbe trovato una buona giustificazione per abbandonare la baracca. Purtroppo, però, non ci libereremo di Sérgio Moro e del suo giustizialismo, lavajatista e tupiniquim, tanto facilmente e nemmeno a stretto giro. Sullo sfondo, infatti, aleggia il guscio vuoto di un partito come il PSDB, che, in alleanza con i “camaleontici” DEM di Rodrigo Maia, potrebbe accogliere Moro e la sua distopica narrativa da far west, entro la quale il prodotto più puro della Lava Jato – Bolsonaro e il bolsonarismo – saranno trattati alla stregua di una mera patologia, che un giorno, senza alcun motivo apparente, prese possesso della democrazia brasiliana.

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