Cosa rischia Salvini per l’indagine sulla Diciotti

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2018-08-26

Al centro dell’inchiesta il protocollo operativo del 2015 elaborato dal Comando generale delle Capitanerie di porto, in cui viene indicato il ruolo del Viminale nella comunicazione del Place of Safety. Il precedente di Maroni

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Matteo Salvini è indagato insieme al suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi per i reati di sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale. Il fascicolo verrà portato al tribunale dei ministri, ovvero la sezione del tribunale ordinario competente per i reati commessi dal premier e dai ministri, anche a carica cessata.

Cosa rischia Salvini per l’indagine sulla Diciotti

Nel momento in cui emergono possibili  responsabilità, il procuratore, senza compiere nessun tipo di indagine, entro 15 giorni deve trasmettere gli atti e darne immediata comunicazione ai soggetti interessati. Entro 90 giorni, il tribunale può decidere l’archiviazione – non è impugnabile – o la trasmissione degli atti al pm, che dovrà chiedere l’autorizzazione a procedere al Senato. I reati ipotizzati contro il leader della Lega sono strettamente connessi alla sua attività politica e alla scelta di non far scendere i migranti dalla nave Diciotti. Dunque anche per il codice etico dei grillini, com’è accaduto per la sindaca Raggi, Salvini non deve finire sul patibolo. «In più», sostengono nell’entourage di Di Maio «il problema si porrebbe solo in caso di condanna in primo grado». D’altro canto lo stesso viceministro si è precipitato oggi a difendere Salvini, con argomenti risibili:

La svolta nell’inchiesta del procuratore Patronaggio e dell’aggiunto Salvatore Vella è arrivata ieri. Dopo un’ispezione effettuata nei giorni scorsi a bordo della Diciotti – con l’audizione del comandante e dei membri dell’equipaggio il magistrato è volato a Roma dove ha sentito due funzionari del Viminale: Gerarda Pantalone e Bruno Corda, rispettivamente capo e vice del dipartimento per le Libertà Civili e l’immigrazione, che ha ricevuto dalla Guardia costiera la richiesta fatta dalla Diciotti di avere indicazioni sul porto da raggiungere. Sono stati ascoltati anche i funzionari che hanno smistato l’ordine di vietare lo sbarco dopo l’attracco a Catania, personale del ministero dei Trasporti e ufficiali della Guardia costiera. Tutti hanno detto di essersi attenuti alle indicazioni dei superiori. L’autorizzazione nonostante quattro richieste non è arrivata per 9 giorni. Salvini era fuori Roma, ma avrebbe impartito direttive via social e via telefono. Sarebbe stato il suo capo di gabinetto, Matteo Piantedosi, a trovare l’escamotage per tenere sotto sequestro i migranti, secondo l’ipotesi della procura. L’attracco a Catania, autorizzato dal ministro alle Infrastrutture, è stato formalmente inquadrato come «scalo tecnico», che non prevedeva lo sbarco.

Il precedente di Maroni

Al centro dell’inchiesta il protocollo operativo del 2015 elaborato dal Comando generale delle Capitanerie di porto, in cui viene indicato il ruolo del Viminale nella comunicazione del Place of Safety. Un protocollo che, per l’accusa, sarebbe stato forzato. Il fatto che la normativa internazionale non indichi un termine entro cui comunicare il porto sicuro, ma preveda solo che l’indicazione venga data con rapidità, sarebbe stato sfruttato per consentire la situazione di stallo. Il Fatto Quotidiano oggi riepiloga cosa è accaduto nel precedente che ha visto come protagonista Roberto Maroni, all’epoca ministro dell’Interno. Il 2 febbraio 2009 annunciò la linea cattivista dei respingimenti; il 6 maggio 2009 tre barconi con a bordo 227 persone, soprattutto somali ed eritrei, erano stati soccorsi in acque maltesi da motovedette italiane e, dopo l’ok di Tripoli (all’epoca ancora governata da Muammar Gheddafi, con cui c’era un accordo siglato nel 2007), furono riportati in Libia.  : ne nacque un’inchiesta della procura di Roma per abuso d’ufficio che fu archiviata dal tribunale dei ministri nell’ottobre 2009, come fu archiviata nel marzo 2006 quella contro un altro capo del Viminale, Beppe Pisanu, anche lui sotto inchiesta per abuso d’ufficio (dopo la denuncia contro ignoti fatta da alcuni parlamentari di centrosinistra) per le presunte irregolarità nel respingimento di migranti arrivati a Lampedusa.

roberto maroni querela di maio campi rom roma - 4

In  entrambi i casi i magistrati ritennero che le loro decisioni fossero legittime. Nel caso di Pisanu il fatto rientrava “nell’ambito dell’esercizio della discrezionalità politica, attività che esorbita dal vaglio della magistratura, anche perché il dicastero degli Interni ha lanciato una lunga serie di allarmi riferendo in Parlamento”. Nel caso di Maroni, invece, era “un atto politico non sindacabile in sede penale” che non voleva danneggiare i migranti. Anzi “al contrario le disposizioni ministeriali sono finalizzate a un efficace contrasto delle organizzazioni criminali”. Tuttavia a sancire l’irregolarità della linea di Maroni fu un episodio per il quale l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo a risarcire 15mila euro a ciascuno dei 22 migranti respinti in Nord Africa irregolarmente.  La sentenza è arrivata nel febbraio 2012, quando a governare l’Italia c’era Mario Monti e in Libia non c’era più Gheddafi. Secondo Strasburgo l’Italia aveva violato la Convenzione europea sui diritti dell’uomo perché i profughi “furono esposti al rischio di maltrattamenti in Libia” e al rischio di “venire rimpatriati in Somalia ed Eritrea”. Inoltre aveva “disobbedito” al divieto di espulsioni collettive e non aveva concesso loro la possibilità di un ricorso contro il respingimento.

Leggi sull’argomento: Così la Chiesa ha fregato Salvini e Conte sui naufraghi della Diciotti

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