Tutto in 48 ore: la crisi di governo più farlocca che c’è

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2019-07-19

Domani, 20 luglio 2019, è il termine ultimo per aprire la crisi di governo che Matteo Salvini sta fingendo di minacciare e Luigi Di Maio sta fingendo di voler evitare. Perché si tratta di una sceneggiata e perché i penultimatum non sono credibili

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Domani, 20 luglio 2019, è il termine ultimo per aprire la crisi di governo che Matteo Salvini sta fingendo di minacciare e Luigi Di Maio sta fingendo di voler evitare. Si tratta dell’ultima data disponibile per permettere il voto a settembre e quindi un governo in carica nei tempi necessari per poter approvare una legge di bilancio che si preannuncia complicata visto che ci sono ventiquattro miliardi di clausole IVA da annullare e, finora, nessun piano concreto da parte del governo Conte per farlo.

Tutto in 48 ore: la crisi di governo più farlocca che c’è

Sono quindi 48 le ore disponibili per Salvini per rendere concrete le minacce che ieri ha fatto pervenire al MoVimento 5 Stelle e a Di Maio in nome di un’opportunità unica per il Capitano: vincere le elezioni visto che i sondaggi lo danno con il vento in poppa, installarsi a Palazzo Chigi e fare la flat tax, il taglio delle accise e tutti gli altri miracoli promessi oltre all’annullamento delle clausole IVA. Solo che c’è un problema: se si vota e Salvini vince, poi queste cose gli tocca farle davvero perché altrimenti rischia di finire incatramato e impiumato come nel Vecchio West. È proprio per questo che questa crisi puzza tantissimo di invenzione letteraria per far dimenticare i soldi alla Lega dalla Russia e Salvini sembra invece impegnato nel percorso politico che era tipico del suo predecessore Umberto Bossi.

salvini di maio voto commissione van der leyen - 3

Il quale Bossi a intervalli regolari dava di matto contro Berlusconi per qualche settimana minacciando tuoni e fulmini finché, al momento decisivo, si trasformava da tigre feroce a gattino caruccio quando bisognava passare dalle parole ai fatti. Esattamente come farà Salvini in questa occasione, visto che in questo momento si trova nell’invidiabile condizione di essere all’opposizione del suo stesso governo e di poter dare al MoVimento 5 Stelle la colpa di qualsiasi cosa (ieri se l’è presa con Danilo Toninelli per i cantieri non ancora aperti…) facendo la figura del grande politico frenato dagli avversari. L’alternativa è terrorizzante: dover fare quello che ha promesso nelle campagne elettorali fino a qui, ovvero cose che è impossibile fare.

Le sceneggiate parallele di Di Maio e Salvini

Per questo siamo passati dall’epoca delle convergenze parallele a quella delle sceneggiate parallele: da una parte Salvini che minaccia di andare al Quirinale e poi annulla tutto, dall’altra Di Maio che passa le giornate a fare appelli su Facebook perché alla fine quando gli ricapita un’occasione del genere visti i sondaggi grillini. Marzio Breda fa sapere sul Corriere della Sera che la crisi è talmente credibile che nessuno ha finora investito formalmente della questione il presidente della Repubblica. Né il premier Conte, né i suoi vice Di Maio o Salvini. Claudio Tito su Repubblica invece dettaglia meglio le intenzioni del Quirinale in caso di crisi:

Se e quando si aprirà una crisi, il capo dello Stato sarà obbligato dalla Costituzione a verificare l’esistenza di una maggioranza. Semmai farà presente a tutti che un passaggio importante per il Paese e per la tenuta dei conti pubblici sarà rappresentato dalla legge di Bilancio. Ma se i partiti non ne vorranno tenere conto, la sua scelta non prevede alternative. Questa linea riguarda la fase attuale in cui si sta aprendo la finestra elettorale per votare il 29 settembre e che si chiude a fine luglio, ma non cambierà anche dopo l’estate. Lo scioglimento del Parlamento è una decisione di cui il presidente della Repubblica prende atto e non provoca, né in un non senso né nell’altro. «La palla è tra i piedi dei partiti».

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Salvini, però, da quell’orecchio non ci sente. È la sindrome dell’accerchiamento. Ai ferri corti con i grillini, a un passo dallo strappo. Tanto a un passo che nella giornata di ieri è anche circolata la possibilità che possa lasciare – solo lui per ora – la squadra di Conte. Questa ipotesi appartiene probabilmente agli sfoghi di un politico in agitazione più che al novero delle soluzioni realmente praticabili. Ma resta il fatto che lo stato dei rapporti nella maggioranza non ha mai raggiunto tali livelli. Lo stesso ministro dell’Interno che da sempre si è considerato il baluardo anti-crisi dentro il suo partito, ora ha cambiato opinione. «Da adesso in poi non sarò più un argine. Tutti gli esponenti più importanti della Lega vogliono andare al voto, io mi limiterò a verificare se le cose si fanno oppure no».

È il solito gioco del cerino. Non vuole assumersi la colpa di uno show-down. Aspetta semmai un incidente, sulle Autonomie o sul decreto sicurezza. O magari sull’informativa che il premier farà mercoledì prossimo su “Moscopoli”, si sostiene. Ma così si va oltre il 20 luglio, la data ultima. O meglio, l’ennesimo penultimatum di una sceneggiata infinita.

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