Perché il manifesto di CitizenGo che paragona l’aborto al femminicidio è sbagliato ma non va censurato

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2018-05-14

L’ennesima campagna dei prolife contro la legge 194 ha suscitato l’indignazione di molte donne che vorrebbero i cartelloni venissero rimossi. Ma sarebbe sbagliato farlo: perché così si perderebbe l’opportunità di denunciare la concezione retrograda dei diritti della donna che hanno gli antiabortisti, che credono che una legge italiana sia la colpa degli aborti selettivi in Cina o in India

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In occasione dei 40 anni della legge 194 del 22 maggio 1978 CitizenGo ha lanciato una campagna pubblicitaria “di sensibilizzazione” contro l’aborto. Oggi a Roma sono comparsi alcuni manifesti dove si legge lo slogan “l’aborto è la prima causa di feminicidio nel mondo” e si chiede di abolire le leggi che consentono l’aborto. In un post su Facebook CitizenGo ha spiegato che «in gran parte del mondo è utilizzato come metodo di soppressione mirata delle donne, nel silenzio del femminismo radical-chic, e in secondo luogo perché le stesse donne che lo praticano, o meglio che lo subiscono, sono anch’esse ‘uccise’ nella loro intimità psichica e fisica».

L’aborto non è un femminicidio

C’è un problema in questa equiparazione: l’aborto non è un omicidio. O meglio lo è unicamente per i fanatici pro-life. Il femminicidio invece è l’assassinio di un essere umano di sesso femminile. Quindi è una forma di omicidio. Anche ammettendo che l’aborto fosse un omicidio dovrebbe essere un infanticidio, visto che ad essere soppressi sono i feti, di ambo i sessi.  Secondo l’Associazione ProVita però l’aborto è “spesso usato per sopprimere donne in modo mirato”. Ovvero si sceglie di non far nascere una bambina perché sarebbe poco “conveniente”. Il fatto che queste pratiche vengano adottate in certe parti del Mondo, e non in tutte, non significa che la responsabilità sia di una legge italiana. E del resto in Italia, dove viene applicata la legge 194, non ci sono dati che possano confermare l’affermazione secondo la quale le donne che scelgono di abortire lo fanno per non dare alla luce una bambina. Anzi. E che dire di quando i Pro-Life festeggiavano la morte di una ragazza deceduta durante un’interruzione volontaria di gravidanza?

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Altrettanto curioso che difendere la libertà della donna siano persone che rifiutano il femminismo al grido di “sposati e sii sottomessa” o altre fesserie di stampo paternalistico. Non è un caso che in certi ambienti del Family Day il femminismo venga ritenuto in buona sostanza il principale responsabile dell’introduzione del concetto di gender (i gender studies si svilupparono inizialmente in ambito femminista) e che quindi le femministe radical-chic, con le loro pretese di emancipazione abbiano spalancato le porte dell’inferno dell’educazione gender che punta proprio ad insegnare ai nostri figli lo “scandalo” dell’uguaglianza di genere.

L’ennesimo attacco ai diritti delle donne

Da sempre cattolici e prolife paragonano l’aborto ad un omicidio, e non desta poi sorpresa che sostengano questa posizione anche nel 2018. Ma quello di oggi è soprattutto un tentativo di appropriarsi – banalizzandola e irridendola – di una battaglia femminista. Quella contro il femminicidio è infatti la battaglia che le donne conducono da qualche anno per affermare un concetto molto semplice: la vita di una donna non è di proprietà di uomo, soprattutto se quell’uomo è il fidanzato o il marito (magari regolarmente sposato in Chiesa). A commettere il femminicidio generalmente è infatti un individuo di sesso maschile, non il medico abortista. La scelta di CitizenGo ha l’obiettivo di svuotare di senso il termine “femminicidio” e di svilire una battaglia femminista. Il tutto in nome di una presunta difesa dei diritti delle donne che si compie negando alle donne il diritto di abortire.

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E così mentre c’è chi cade nella trappola della provocazione e chiede alla sindaca Raggi di censurare i manifesti apparsi il senatore leghista Simone Pillon, già promotore del Family Day e noto per le sue battaglie contro la stregoneria e a favore del “cittadino Alfio Evani” (Alfie Evans), tuona contro chi vorrebbe rimuovere i manifesti. E aggiunge: «È purtroppo una triste realtà che in paesi come Cina e India l’aborto sia la prima causa di femminicidio visto che gli embrioni vengono selezionati sulla base del sesso, lavoriamo insieme oltre ogni ideologia per dare applicazione alla prima parte della Legge 194/78 con l’obiettivo di aiutare ogni donna a far nascere il suo bambino e nel contempo rispettiamo la libera espressione delle associazioni pro-family come previsto dalla Costituzione».

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Il senatore Pillon dovrebbe a questo punto spiegare come una legge italiana e la Costituzione italiana possano in qualche modo avere un effetto in paesi stranieri come Cina e India dove l’aborto è regolato in base ad altre leggi. In quei paesi la selezione degli embrioni in base al sesso non è causata dalla legge 194, che è una legge la cui applicazione è limitata all’Italia ma  è, nel caso cinese, la diretta conseguenza della “politica del figlio unico” adottata dal Governo di Pechino.  Altrove, in Islanda, l’aborto è stato accusato di essere uno strumento di eugenetica perché stranamente le coppie preferiscono scegliere di mettere al mondo un bambino sano che uno malato. È quindi semplicemente pretestuoso sostenere che la legislazione italiana sull’aborto sia la causa del femminicidio, soprattutto in un Paese come il nostro che paga ancora il problema dei medici obiettori di coscienza. Una rapida occhiata all’account Twitter di ProVita ci riporta alla realtà. Una settimana fa i prolife che denunciano il crimine dell’aborto avevano scoperto i messaggi subliminali – immancabilmente pro gender – dell’ulitmo spot di Intimissimi. La situazione è disperata sì, ma non seria.

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