Brasile: una crisi istituzionale che viene da lontano

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2020-06-29

La pandemia provocata dal Covid-19 ha portato alla luce ciò che latentemente operava da tempo nel contesto sociale brasiliano, vale a dire una profonda crisi istituzionale e di relazione tra i poteri frutto, in ultima istanza, di un processo di ridemocratizzazione in larga misura fallito

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La pandemia provocata dal Covid-19 ha portato alla luce ciò che latentemente operava da tempo nel contesto sociale brasiliano, vale a dire una profonda crisi istituzionale e di relazione tra i poteri frutto, in ultima istanza, di un processo di ridemocratizzazione in larga misura fallito e di una architettura istituzionale incapace di fare fronte alla complessità del tessuto socio-economico locale. Gli scontri delle ultime settimane tra il presidente in cerca d’autore Jair Bolsonaro e il Supremo Tribunale Federale rappresentano, in maniera plasticamente simbolica, il processo ipertrofico, relazionato al potere esecutivo e al potere giudiziario, attivo in Brasile almeno a partire dagli anni ’90.
Una repubblica presidenziale avente un sistema elettorale di tipo proporzionale, all’interno della quale il Presidente è, al tempo stesso, un prigioniero del Congresso ed un suo sempre potenziale trasgressore attraverso l’uso (e talvolta abuso) dello strumento delle medidas provisórias (letteralmente “misure provvisorie”). Un sistema proporzionale, il quale, lungi dal costituire una adeguata risposta per uno Stato di dimensioni continentali, è divenuto un efficacissimo mezzo mediante il quale costruire durature clientele politiche, le quali coinvolgono ogni partito in qualsivoglia Stato dell’Unione. Sistema proporzionale, il quale, giova ricordarlo, si innesta su precipue e assai radicate strutture di potere peculiari del Brasile, quale, per esempio, il coronelismo, di fatto, impedendo qualsiasi tipo di mobilità della rappresentanza politica.

bolsonaro tosse brasilia

Brasile: una crisi istituzionale che viene da lontano

Pur non essendo un difensore del “nuovo e del giovane” sempre e comunque, ciononostante non può essere considerato un elemento fisiologico connesso al funzionamento della democrazia il fatto di avere a capo dei maggiori partiti brasiliani, tanto a sinistra che a destra, figure che da decenni mantengono salda la leadership all’interno del proprio partito o, come è il caso di Bolsonaro, pur “surfando” da un partito all’altro, si mantengono alla testa dei vari partiti nei quali entrano e nei quali immettono il proprio pacchetto di voti, perpetuando in questo modo il rimando circolare tra clientelismo e assenza di mobilità politica. Non andremmo troppo lontani dal vero se applicassimo al summenzionato rimando circolare, come del resto al potere giudiziario nelle sue varie manifestazioni, la cosiddetta legge di ferro dell’oligarchia, sapientemente descrittaci da Robert Michels nella sua lungimirante sociologia dei partiti politici. Seguendo la lettura michelsiana, i partiti politici brasiliani, dalla fine della dittatura ad oggi, si sarebbero sempre più burocratizzati, progressivamente allontanandosi dai principi originari sui quali erano stati fondati. L’organizzazione, come osserva Michels, cessa di essere un mezzo per la realizzazione di un fine, trasformandosi, essa stessa, nel fine dell’azione politica. Si assiste così alla perdita di qualsiasi spazio simbolico, da sempre connesso a qualsivoglia orizzonte politico, ed il successivo, inevitabile rafforzamento del partito inteso come comitato d’affari e difensore delle posizioni di privilegio acquisite dai suoi rappresentanti. Questa dinamica è acuita nel caso brasiliano dal fatto di essere, molti partiti, soprattutto quelli di ridotte dimensioni, sin da subito dei comitati di affari, i quali attraverso consolidate pratiche clientelari, attive a livello territoriale, riescono ogni volta a guadagnare un numero di seggi non trascurabile all’interno del Congresso, formando in un secondo momento dei veri e propri “cartelli di partito”. Questo, per esempio, è il caso di quella porzione di partiti che va sotto il nome di “centrão” e che rappresenta un aspetto del tutto peculiare della politica brasiliana.

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Parimenti, questo processo di oligarchizzazione non riguarda soltanto l’élite politica, estendendosi anche al potere giudiziario nelle sue varie espressioni, laddove la più icastica è rappresentata dal Supremo Tribunale Federale; potere sostanzialmente bicefalo, cui competono tanto iniziative di tipo politico quanto di tipo giudiziario, senza che sia chiaro quale delle due competenze sia considerabile primaria rispetto all’altra. Con riferimento al potere giudiziario brasiliano, ciò che più lo contraddistingue, sotto il profilo della relazione con la società, è la funzione tutelare e paternalista da questi da sempre esercitata. Sebbene si parli con una certa frequenza di giudizializzazione, raramente si lega questa preoccupante deriva alla più generale storia del Brasile e alla interconnessa questione delle sue dimensioni continentali. Durante un periodo di tempo assai lungo, ampie porzioni dell’immenso territorio brasiliano hanno ricevuto una amministrazione della giustizia quantomeno deficitaria, se non proprio assente, ciò che ha plasmato l’attuale diffusa coscienza sociale che vede nei rappresentanti del potere giudiziario una sorta di divinità, il più delle volte ritenute infallibili. Uno stato di cose, che, in maniera veemente a partire dal 2013, sebbene un primo sensibile strappo lo si possa registrare già nel 2005 con il caso del Mensalão, ha incontrato la sua migliore declinazione con il ruolo che il Supremo Tribunale Federale ha assunto in relazione alle più rilevanti dinamiche politiche accadute nel Paese. Sovraesposizione politica e mediatica, la quale, una volta di più, ha posto l’interrogativo di quanto coloro che in ultima istanza dovrebbero essere i guardiani della Costituzione non costituiscano, in realtà, una minaccia alla stessa esistenza democratica, venendo meno, con il loro bicefalo esercizio di potere, qualsivoglia tipo di separazione tra gli stessi poteri ed un costante trasferimento, a loro, di prerogative che dovrebbero spettare al potere legislativo.

La partita a scacchi tra Bolsonaro e il Supremo Tribunale Federale

Nella complicatissima partita a scacchi che si sta giocando in quel di Brasilia tra Bolsonaro e il Supremo Tribunale Federale sembra, da ultimo, potersi leggere in filigrana uno scontro tra due differenti tipi di populismo, dove il primo, per intensità, è peggiore del secondo, ma non ne rappresenta una trasgressione sotto il profilo qualitativo, come da più parti si vorrebbe mostrare. Ci troviamo, pertanto, di fronte a due poteri sostanzialmente eversori in relazione all’esistenza del parlamentarismo, il quale, entro questa dialettica a due, viene a ricoprire il ruolo del convitato di pietra. Un parlamentarismo in chiara sofferenza, anche a causa della summenzionata situazione dei partiti politici brasiliani, ma che solo può rappresentare un’uscita politica accettabile dal sempre più pressante scontro tra i due opposti populismi: quello bolsonarista e quello giudiziario con alla testa il Supremo Tribunale Federale.

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Ad oggi ritengo assai difficile che Bolsonaro possa arrivare alla fine del suo mandato, alla luce dei troppi fronti giudiziari che si sono aperti, soprattutto contro i figli, oltre che per la smidollata gestione dell’emergenza da Covid-19. Tuttavia, l’uscita dalla presidenza dell’inquilino dell’Alvorada, ammesso che avverrà, sarà tramite impeachment, con ciò sanzionando, ancora una volta, il ruolo gregario del Congresso e mantenendo nei ministri del Supremo Tribunale Federale i suoi autori intellettuali. Emblematica, in questo senso, è la figura della ministra Cármen Lúcia, la quale oggi grida ai quattro venti la sua contrarietà al “desgoverno” Bolsonaro, come l’ha definito pochi giorni fa nel corso di un intervento pubblico (onnipresenza pubblica di rappresentanti del potere giudiziario che è una patologia non solo della democrazia brasiliana), ma che all’epoca dell’ultima tornata elettorale, da Presidente del Supremo Tribunale Federale, e con una manovra smaccatamente di tipo politico, fece di tutto per non mettere all’ordine del giorno la decisione concernente il giudizio sulla prigione in seconda istanza, perché avrebbe beneficiato anche l’ex-Presidente Lula. Una decisione che non solo orientò pesantemente l’esito elettorale, a favore di quel Bolsonaro che la ministra oggi critica, ma che rappresentava, nelle stesse parole del ministro del Supremo Tribunale Federale Marco Aurélio de Mello, una violazione della “clausola pétrea” della costituzione brasiliana, la quale non prevede la detenzione al secondo grado di giudizio. Come si dice in Brasile, “recordar é viver” (ricordare è vivere), pertanto, non è difficile ipotizzare che, anche questa volta, la politica brasiliana passerà per la centrifuga tribunalizia della sua onnipresente Corte Suprema con buona pace della separazione tra i poteri e dunque dei rispettivi territori di azione istituzionali. La buona causa, ossia a dire l’allontanamento di Bolsonaro e della sua camarilla militare dal Palácio do Planalto, verrà a mettere la sordina all’ennesimo atto di tribunalizzazione della politica brasiliana, ribadendo la funzione tutelare del potere giudiziario nei confronti di una sempre più delegittimata politica e di una sempre più fiacca società civile.

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