Alberto Sordi che picchia Monica Vitti è diseducativo?

di Elio Truzzolillo

Pubblicato il 2020-07-09

Ieri sera è andato in onda su La7 lo splendido film di Alberto Sordi “Amore mio aiutami”. Ho già visto un paio di post su Facebook in cui si condanna per la gratuità e la violenza eccessiva la famosa scena in cui Alberto Sordi picchia in modo brutale la moglie, Monica Vitti, sulla spiaggia. Il …

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Ieri sera è andato in onda su La7 lo splendido film di Alberto Sordi “Amore mio aiutami”. Ho già visto un paio di post su Facebook in cui si condanna per la gratuità e la violenza eccessiva la famosa scena in cui Alberto Sordi picchia in modo brutale la moglie, Monica Vitti, sulla spiaggia. Il film sarebbe quindi diseducativo perché perpetuerebbe la figura del maschio padrone che usa violenza sulla donna. Prima che qualche genio faccia una petizione per eliminare questa scena o per farla precedere da una nota in cui si spieghi che non è giusto picchiare la propria compagna, vorrei sottolineare alcuni aspetti.

Il film è del 1969, un periodo di grandi fermenti culturali (femminismo, pacifismo, libertà sessuale, emancipazione della donna, messa in discussione della società patriarcale, ecc.). Attraverso la storia di una coppia benestante il film ci mostra (in maniera a tratti surreale) come la borghesia recepisca questi valori mantenendo però alcune contraddizioni di una società in mezzo ad un guado culturale.

Alberto Sordi di fronte alla moglie che si innamora di un altro uomo perde tutte le sue sicurezze e i suoi riferimenti valoriali. È troppo acculturato per reagire da marito padrone ma non ancora così maturo per aderire convintamente ai nuovi canoni. Si muove quindi tra due eccessi. In un primo momento è oltre modo comprensivo (non mette mai la moglie di fronte ad un aut aut, ricerca un franco ed educatissimo dialogo con l’altro e arriva persino a collaborare con lei per scrivere una lettera al potenziale amante). In un secondo tempo raggiunge l’esasperazione e arriva a picchiarla (con violenza quasi inaudita). In un terzo momento ritorna a essere comprensivo sfiorando (anzi oltrepassando) il ridicolo. Infatti invita il rivale a cena per dare alla moglie la possibilità di conoscerlo meglio e lo spinge persino a farle compagnia quando la vede soffrire per amore pur di aiutarla (una scena tenera e surreale allo stesso tempo). Tramite il pendolo emotivo dell’insicuro Alberto Sordi il film ci offre quindi lo spaccato di una società in mezzo ad un guado culturale, provocando le coscienze per indurle a confrontarsi con le nuove sfide intellettuali di un mondo che (giustamente) stava cambiando. Sono certo che qualunque coppia all’epoca (ma anche oggi) si sia domandata cosa sia giusto e cosa non lo sia in una situazione simile.

La stessa Monica Vitti, d’altronde, è la prima a picchiare il marito (ovviamente in modo molto meno violento). Anche lei, infatti, in quel momento è legata ai vecchi canoni e considera un insulto intollerabile il solo fatto che Sordi le chieda se era già stata a letto con “l’amante” (domanda più che lecita se tua moglie ti dice che è innamorata di un altro).
Anche nel rapporto con il figlio emerge la difficoltà di aderire alla “modernità”: prima Alberto Sordi arriva all’assurdità di informare un dodicenne di tutti i problemi di una coppia di genitori senza alcun filtro e poi lo picchia per una risposta imprudente, pentendosi immediatamente del suo gesto. Le reazioni sproporzionate, surreali e volutamente eccessive di Sordi sono quindi una metafora di una società e un esempio su cui riflettere.

La scena in cui Monica Vitti viene picchiata non è gratuita e non fa ridere, l’intero film non è comico, semmai è a tratti tragicomico. Solo la cieca furia iconoclasta degli ultimi tempi potrebbe pensare che il film legittimi la figura del maschio padrone e che sia il prodotto di una società maschilista. Al contrario il film mette crudelmente in luce la sua debolezza visto che alla fine è travolto dalla vicenda e la subisce passivamente, rimanendo esposto all’ironia e alla pena dello spettatore, che, come detto, non potrà che riflettere sulle sue possibili reazioni in situazioni simili.

Mi permetto di fare una sorta di appello al lettore: concentriamoci sul presente e sulle cose da fare. Potenziamo i centri anti-violenza, combattiamo quella barbarie che è l’infibulazione che ancora oggi riguarda molte ragazze mussulmane che vivono in Italia, protestiamo contro i “decreti sicurezza”, portiamo l’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole, condanniamo atti e parole che ormai sono intollerabili e facciamoci venire idee concrete per azioni concrete. Ma finiamola con questa sterile e stucchevole condanna di film, libri e opere teatrali per sentirci più buoni. L’arte deve essere libera di rappresentare il male e il bene, la grandezza dell’uomo e la sua miseria, la violenza e la compassione. Film, libri e opere teatrali sono splendidi spaccati del sentiment e delle atmosfere culturali dei tempi in cui sono stati scritti persino quando sembrano legittimare comportamenti censurabili (e non è questo il caso). Hanno, inoltre, una grandissima funzione pedagogica. È vivendo indirettamente le storie di altre persone che impariamo, non possiamo (e non dobbiamo) fare in prima persona tutte le esperienze possibili per capire cosa è giusto e cosa non lo è. Possiamo, invece, vivere indirettamente queste esperienze tramite la narrazione di storie e personaggi fittizi per trarne degli insegnamenti.

L’alternativa sarebbe impegnarci in un’eterna ed effimera discussione su quali scene, passaggi e immagini sarebbero da censurare. Sarebbe candidata qualunque scena in cui è rappresentato un omicidio, un gesto mafioso, una violenza sessuale, un’azione di guerra, un atto di molestia, di bullismo, di razzismo, un furto, un ricatto, un suicidio, una dipendenza auto distruttiva, ecc. ecc. Il male non si combatte proibendone la rappresentazione a priori, ma guardandolo negli occhi, riflettendo sul come e sul perché si insinua nei nostri comportamenti e persino, a volte, ridendoci su.

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