The Italian Lockdown: 1. cronache da un paese in quarantena

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-11

Domenica, 8 marzo 2020. L’uomo dal lungo naso, che per ignote ragioni risiedeva a Palazzo Chigi, misurando le parole, era apparso in tv verso le 2 e 30 del mattino, in piena notte. Le notizie erano filtrate già da qualche ora. Tutta Milano e buona parte del nord Italia erano diventate zona rossa. Anche la …

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Domenica, 8 marzo 2020.

L’uomo dal lungo naso, che per ignote ragioni risiedeva a Palazzo Chigi, misurando le parole, era apparso in tv verso le 2 e 30 del mattino, in piena notte.

Le notizie erano filtrate già da qualche ora. Tutta Milano e buona parte del nord Italia erano diventate zona rossa.
Anche la provincia di Reggio Emilia, dove abitava nostra madre.
“Non mi avevi detto che era tutto a posto, su?”
Mia sorella non rispose. Mi strinse la mano. Forte.

Fuori, qualche ubriaco litigava. Oltre il balcone, una sottile nube di marijuana saliva fino a noi, al quinto piano. Da un paio di mesi, avevano aperto un nuovo locale, giù in strada, popolato da skaters ventenni.
I criceti, li chiamavo io, quando mi capitava di vederli volteggiare dentro una gabbia lunga tre metri.
Come cazzo facessero, a fumare e surfare su quelle tavole a rotelle, senza frantumarsi la testa, era una questione che mi sfuggiva.
Facevano un baccano della madonna, ma per fortuna avevo la camera da letto sul lato opposto alla via. Ad ogni modo, era un fracasso e tutto il condominio se ne lamentava.

“Non ha senso che abbiano lasciato aprire un locale così, sotto un condominio.”
“Che palle che sei” aveva preso a dirmi un amore brasileiro, andato a male.
“Guarda che ci sta una signora anziana, che abita al primo piano, che non dorme più la notte! Per colpa di questi che bim bum bam… fanno casino fino alle quattro del mattino.”
“E che non rompesse le palle, sta vecchia!”
Parlava bene l’italiano, la bahiana. Sapeva pure usare il congiuntivo. Ma i congiuntivi non sono mai una garanzia. L’uomo dal lungo naso, ad esempio, non ne sbagliava mai uno. Per questo avevano preferito lui, al bibitaro, l’estate prima, quando quell’altro fenomeno si era perso tra i mojitos del Papeete. Ma questa ormai, come tante altre, era diventata ancient history. L’Italia aveva poca memoria, a differenza di me, che ricordavo sempre tutto. Come un cammello, o un elefante, o una condanna a morte.

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O forse un semplice garbuglio di ricordi e pensieri che mi impedivano di prendere sonno, quella notte. Mia madre, a settanta e passa anni, confinata in una zona rossa. Faceva ridere e piangere. Dovevo chiamarla. Avevo pur diritto a un’ultima, lunga telefonata, prima di passare a miglior vita.
La testa si infilava sotto il cuscino, per scacciare via tutto: gli skaters, i cammelli, gli elefanti, il plotone schierato. I fucili puntati e la bahiana e le sue grandi tette e quelle labbra, penzolanti e bagnate, sulle mie… No!
Era davvero un brutto sogno. Bisognava abbandonarlo. Subito. E fare qualcosa. Sì, qualcosa. Da tempo, ormai, avevo raggiunto l’età di quello che dovrebbe dirsi un uomo. Ero in grado anche di fare una telefonata di quelle che allungano la vita.

Al bar sotto casa, all’incrocio con via l’Aquila, il tempo di un caffè.
Mia sorella non aveva dovuto dirmi nulla. Nelle prime, tenue luci dell’alba, ci eravamo incrociati in corridoio. Lei aveva già la valigia in mano, pronta. Aveva deciso lei, come al solito, prima di me.
Non era una coincidenza. Succedeva da sempre, da quando eravamo nati, gemelli, lei prima e io subito dopo, con qualche minuto di ritardo e di complicazione in più, come recitava la leggenda di famiglia.
“Sicuro di voler restare qui, da solo?”
“Che vuoi che succeda, a Roma? E poi lo sai, devo sentirmi col produttore.”
“Ah sì, la serie…”

A differenza di me, Angela saliva su al paese più spesso, al volante della sua Clio, che in quattro ore e passa la portava dritta a Correggio, dove eravamo cresciuti assieme, tanti anni prima. Non le piaceva prendere il treno, preferiva decidere sul momento. Da una vita, ormai, che faceva così. A volte, senza chiedersi nemmeno il perché.
Io non glielo chiedevo mai. Ho sempre condiviso la sua stessa inquietudine. E poi tanto, ovunque andasse, sapevo che ci sarebbe stato quel momento in cui avremmo sentito e pensato la stessa cosa e bastava un colpo di voce per non dirsi niente e capire tutto.

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Un cenno della mano e via.
La Clio scompare oltre gli archi di piazza Lodi e io ne approfitto per comprare le sigarette e farmi due passi lungo la via pedonale. Sciubba è chiuso, la domenica mattina, forse è aperto Tuodì.
Incrocio Marcello che mi guarda preoccupato. La Juve rischia di farsi cacciare fuori da tutto, sta giocando male, malissimo, Sarri non ci azzecca nulla e stasera c’è pure l’Inter. “Sempre che giochino” aggiunge.
In effetti non è detto. Già la scorsa settimana hanno rinviato alcune partite. Non ho seguito bene la faccenda, ma mi diverto a confabulare con lui, come due carbonari che si guardano le spalle, da un branco di giallorossi pronti a conciarci per le feste. A Roma, essere strisciati bianconeri non conviene. Solo che Marcello non ha voglia di parlare, oggi, taglia corto e se ne va.
Poi becco Olmo. Dice che ce devono solo prova’ a chiudergli l’enoteca come hanno fatto su a Milano. “Ma te pare? Alle sei di sera? Io alle sei apro!”
Mostra la mano aperta, come una padella, pronta a menare chiunque possa anche solo provare a fargli solletico, ma in fondo è sempre tutta una ciarla. Oddio, qualche anno di galera se l’è fatto davvero, a suo tempo. Ma erano davvero altri tempi. Tempi che è sempre pronto a ricordare, come quella volta che hanno fatto de tutto e de più, menandosi co’e guardie a San Basilio e di anni ne sono passati almeno venticinque, ma lui ancora se ricorda che…
Alt. Stop.
Il cellulare mi vibra in tasca. Un messaggio del produttore.
Attention!

La faccia seria che ho messo su, serve a poco.
Le solite parole gentili, con la promessa che in settimana ci sentiamo.
Abbozzo una risposta a denti stretti, digitando con le dita.
“Tutto a posto?” mi fa Olmo, che da sempre crede in me.
“Eh, la prossima settimana, forse, vediamo.”
“E vedemo se c’arivamo alla prossima settimana” ride, per poi sgattaiolare via, pure lui.
Ma che c’hanno tutti, stamattina?

Lo saluto e scarto il pacchetto di gauloises per tornare verso casa. Attraverso nuovamente via l’Aquila e mi accorgo che il negozio dei Cinesi è chiuso. Per ferie, c’è scritto. E quando mai i Cinesi vanno in ferie… Mi rendo conto solo allora che pure il barbiere, sempre cinese, ha le saracinesce abbassate. Non ci sono skaters in giro la domenica. Poco movimento. Pure i senegalesi ciondolano a testa bassa, senza pischelle al seguito.
Qualche desperado starnazza nei giardini, in piazza del Pigneto. Una barbona vestita di stracci prende a saltellare dopo essersi presa a mazzate con un suo compare.
“Mo’ vedrai! Vedrai! Le strade diventeranno tutte nostre! Ce staremo solo noi in giro! A Stronzi!!!” prende a sbraitare cercando una platea che non c’è.
Mi prende un colpo di tosse, brutta e secca e subito penso che sia meglio gettar via la sigaretta, mentre infilo le chiavi nel portone di casa.
La prima cosa che devo fare, me lo ripeto da stamattina, è chiamare mia madre, prima che arrivi mia sorella. Se no sai, che figura del cazzo. E poi si sa, una telefonata allunga la vita

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