The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 6. L’elicottero

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-17

Domenica, 15 marzo 2020. “Perché non scrivi al sindaco?” “In che senso?” “Beh, insomma, per sapere come vanno le cose con i contagi, qui in Paese.” “Guarda che mettono sempre i dati, ogni giorno, su Facebook. Sei iscritta a Facebook, no?” “Eh, ma… un conto e quello che dicono, un conto è quello che non …

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Domenica, 15 marzo 2020.

“Perché non scrivi al sindaco?”
“In che senso?”
“Beh, insomma, per sapere come vanno le cose con i contagi, qui in Paese.”
“Guarda che mettono sempre i dati, ogni giorno, su Facebook. Sei iscritta a Facebook, no?”
“Eh, ma… un conto e quello che dicono, un conto è quello che non dicono!”
“E cosa non dovrebbero dire, secondo te?”
Certo che a rompere il cazzo, mia madre, era fenomenale.

Parentesi.
La sera prima, in una trasmissione televisiva, un commentatore aveva sciorinato i dati sulle morti, che al momento si concentravano soprattutto in alcune zone della Lombardia. In termini di percentuale, però, l’Italia risultava incredibilmente avanti, rispetto ad altri Paesi. Il che sfuggiva ad ogni logica, a meno che il virus si fosse incazzato proprio con noi, va te a sapere perché.
Luciano si era fatto un’idea, al riguardo. Se un paziente in tarda età, in cattive condizioni, muore risultando positivo al corona virus, come la calcoli quella morte? Forse, l’Italia era stata di manica larga nel conteggio, mentre i Tedeschi sembravano aver tirato una riga sopra a certi pazienti gravi, in modo da minimizzare gli effetti letali del virus.
Secondo mio fratello, era possibile che ci fosse dietro una strategia comunicativa che mirava a definire l’impatto sull’opinione pubblica. In Italia, si era preferito essere molto trasparenti e la cosa aveva funzionato.
A Roma, nella stragrande maggioranza dei casi, diceva che tutti si comportavano in modo corretto. La strizza aveva sortito i suoi effetti.
E comunque, il numero dei morti non era la questione principale. L’importante era garantire la sostenibilità del sistema sanitario, per quelli che finivano in terapia intensiva. L’Italia si era trovata in prima linea, ma giorno dopo giorno, ovunque al mondo si ripetevano gli stessi passaggi. Prima i cinema, i teatri, le partite di calcio… A chiudere tutto, scuole e negozi, bar e ristoranti, come da noi, proprio quella domenica era stata la Spagna.

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“Dicono che stasera passerà un elicottero, per disinfestare tutta Correggio!”
“Addirittura.”
“Tu, che appendi i panni fuori dalla finestra, come fanno i meridionali, i maruchein, faresti meglio a tirarli dentro.”
“Mamma, non abbiamo un balcone. Magari ce l’avessimo. Ieri, ho solo messo ad asciugare un maglioncino sulla ringhiera della finestra. Piantala di rompere!”
Ha messo su una faccia offesa. D’altronde, quado ci vuole ci vuole.
“Bene. Visto che non hai voglia di parlare e non vuoi nemmeno chiamare il sindaco che andava a scuola con te, io vado a letto. Buonanotte. Sparecchia tu.”
“Buonanotte.”

Sta storia dell’elicottero era circolata veramente, tanto che il comune aveva messo un post su Facebook, per spiegare che era solo una fake news che circolava su messaggistiche varie. Una delle tante, che impazzavano sui social, già da tempo tramutati in una jungla piena di cazzate che però influenzavano… gente come mia madre. Ma non solo.

Giulio era diventato piuttosto paranoico, rispetto a quando ci frequentavamo e suonavamo assieme. Erano anni che non lo vedevo e credo ce l’avesse ancora con me, per avere lasciato lui e la band e trasferirmi in Inghilterra ad abbracciare tutt’altra avventura.
Per anni, aveva rifiutato ogni contatto. Si era sposato, aveva messo al mondo due bambine e quando rientravo in Italia, non insistevo troppo nel cercarlo. Le nostre vite, ormai, avevano preso binari separati. Fino a quando non ero riuscita ad intercettarlo, al parco. Che poi, secondo me era lui che aveva preso a ronzarmi attorno.

“E’ tutta una operazione di guerra virale. La nuova guerra mondiale! Stati Uniti da una parte e Cina dall’altra” aveva preso col dire,
“E noi?”
“Dobbiamo scegliere bene da che parte stare. Io dico che bisogna uscire dalla Nato, subito!”
“E poi?”
“Solo la Cina ci può aiutare. Sono stati loro ad essere stati attaccati, per primi.”
“Loro? E da chi?”
“Dall’America! E’ tutta una guerra batteriologica! E guarda che io mica sto lì a farmi le seghe su Facebook. L’ho letto sul China Daily!”

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Abbiamo smesso di correre e ci siamo fermati a prendere fiato, allargando le braccia, per esercitare la respirazione. Fosse stato per me, mi sarei anche avvicinata, ma Giulio teneva le distanze. Altro che un metro. Per lui, i metri, dovevano essere almeno cinque. Ma se non altro non ce l’aveva più con me.

Si era separato e viveva la quarantena da solo. Gli mancavano da morire le figlie e “quella stronza della Sonia si inventa di tutto per non farmele vedere. Giusto con facetime, riesco a parlarci, di nascosto.”
“Ti sei sposato una stronza, che ti aspettavi?”
Mi ha guardato storto, sospirando. Se aveva sposato Sonia, era solo perché io lo avevo lasciato, sembrava volermi dire. E forse era vero. O comunque era piacevole pensarlo. Non mi aveva dimenticato. Ero rimasta la prima, vera donna della sua vita.

“Se tua moglie ce l’ha con te, probabile che sei andato a infilarlo da qualche parte dove non dovevi. Ti conosco, mascherina!”
Ho ripreso a correre per tornare a casa e ho notato che non faceva nulla per sorpassarmi. Mi stava dietro per guardarmi il culo. Anch’io avevo guardato il suo, all’andata. Era in forma, Giulio. I capelli erano diventati fili di argento, ma non gli stavano per niente male. Gli occhi, sempre uguali: verde chiari, belli. Mi erano sempre piaciuti.

“Ok, ci si vede domani allora” mi aveva detto dopo aver superato il sottopassaggio che dal parco portava alla vecchia stazione.
“Dobbiamo proprio aspettare fino a domani?” avevo buttato lì, per sondare il terreno.
“Che soggetta che sei” mi aveva sorriso, per poi strizzarmi l’occhio e fuggire via.
Aveva voglia anche lui di scopare, era chiaro.

Grazie a Stefania, avevo scoperto dove abitava. In via Casati, cento passi da casa di mia madre. Che già ronfava, nel suo letto.
Fuori, non c’era anima viva e a quell’ora non c’era nemmeno il rischio di incappare nei vigili. Non credo proprio che facessero turni notturni.
Il silenzio, lungo corso Cavour, era assordante.
Nemmeno un gatto. Nemmeno un topo.
Solo il vento, che quella notte aveva preso a soffiare, freddo.
Vento di tramontana.

Non avevo il numero di telefono di Giulio, non sapevo come raggiungerlo, ma via Casati era giusto una viuzza del centro storico, in quella parte che un tempo era stata il ghetto ebraico.
Ho sbirciato i campanelli ai portoni, uno dopo l’altro.
Al terzo, ecco che l’ho trovato: Giulio Moscardini.

Mi sono guardata alle spalle e ho pigiato sul campanello. Ho atteso, guardando le finestre lungo la via, per controllare che non mi stesse sbirciando nessuno, che si sa, in paese trovi sempre lo stronzo che magari avverte i carabinieri. Nessuno era autorizzato ad andarsene in giro per i cazzi suoi, men che meno la sera, a meno che non portavi a pisciare il cane. Sarebbe stata l’unica scusa plausibile, ma non avevo un cane. Mi facevano schifo, i cani. Sono sempre stata gattara.

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Stavo per andarmene quando il citofono ha gracchiato.
“Chi è?”
“Angela.”

Nessuna risposta. Immagino che anche lui stesse sbirciando oltre le finestre di casa, per sincerarsi che nessuno si fosse affacciato sulla via.
I secondi passavano, stavo ormai per andarmene, quando la serratura del portone si è sbloccata. Truc!

Sono entrata nell’androne, senza accendere la luce, utilizzando il telefono come torcia. Non sapevo a che piano abitasse Giulio. Ho preso a salire le scale, facendo attenzione a non fare il benché minimo rumore.
Al secondo piano, finalmente, ho visto una luce filtrare oltre lo stipite di una porta socchiusa. Ho bussato, leggermente.

Giulio ha aperto. Indossava una mascherina.
“Che vuoi?”
“Dai, che ci arrivi da solo.”
Mi ero tirata a lucido. Per quanto potesse tirarsi a lucido una come me. La maglietta era bella attillata, il reggiseno faceva il suo e le tette mi schizzavano dritte, lasciando intravedere i capezzoli.
Il suo sguardo, già lo sapevo, si è andato a posare subito lì. Giulio non era esattamente il tipo da guardarti negli occhi.
Si è levato la mascherina, con un colpo secco, come se stesse strappandosi via le mutande. Non so cosa gli sia preso. Voleva farlo lì, sul pianerottolo?
L’aria che saliva lungo la tromba delle scale ha fatto il resto.
Ha preso a starnutire. La prima volta infilando la faccia nel gomito. La seconda sulla maniglia della porta. Proprio dove avevo bussato. E lì, mi si è gelato il sangue…
Ho preso a correre, all’impazzata, giù per le scale buie, fino a tornare lungo corso Cavour, dove la tramontana impazzava, per poi svoltare in via Marconi e raggiungere casa.
Cento metri o poco più, inclusi due piani di scale, nel giro di una ventina di secondi. Mi sono abbandonata con la schiena al portone, per prendere fiato.
Una faccia scura ha fatto capolino dalla finestra del primo piano. Quella di fianco alla mia camera. Chi poteva essere? Mia madre, of course.
“Che fai lì fuori?”
“Fumo una sigaretta.”
“A quest’ora? Con sto freddo! Ma sali su, disgraziata!”

Mi sono accesa una sigaretta per costruirmi un alibi. Non vuoi mai che qualcun altro avesse assistito alla mia sortita notturna. Due boccate, senza nemmeno inalare e l’ho subito gettata. I polmoni stavano ancora pompando, dopo la corsa. Non potevano accettare nemmeno una nuvoletta di fumo.
Mia madre ha richiuso la finestra, bofonchiando qualcosa di incomprensibile. Un’imprecazione, probabilmente.
Nel silenzio della notte, il cuore mi batteva forte.
Tu-tum, tu-tum, tu-tum. Come pale di elicottero. Ho guardato in alto, che magari non vuoi mai, ci fosse stato davvero, quell’elicottero, a disinfestare il paese.
Ha vibrato il telefono. Era mio fratello. Quando mi batteva forte il cuore, lo sentiva anche a un oceano di distanza.
“Tutto bene?” diceva il messaggio.
“Tutto bene” ho risposto, per poi guardare in alto, verso il cielo stellato.

Ci fosse stato davvero un elicottero, a portarmi via.

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