Sul Decreto Biondi: una risposta al Procuratore della Lava Jato Roberson Pozzobon

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2019-11-17

Lo scorso 8 novembre il Procuratore della Lava Jato, Roberson Pozzobon, su Twitter, paragonò la decisione del Supremo Tribunale Federale sulla detenzione dopo il secondo grado di giudizio al cosiddetto Decreto Biondi, emanato il 13 luglio 1994 dal primo governo Berlusconi

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Lo scorso 8 novembre il Procuratore della Lava Jato, Roberson Pozzobon, su Twitter, paragonò la decisione del Supremo Tribunale Federale sulla detenzione dopo il secondo grado di giudizio al cosiddetto Decreto Biondi, emanato il 13 luglio 1994 dal primo governo Berlusconi, il quale si proponeva di vietare la custodia cautelare in carcere, sostituita dagli arresti domiciliari, per tutti quei reati, che riguardassero la Pubblica amministrazione e per i reati finanziari, compresi i reati di corruzione e concussione. Da tale decreto restavano esclusi i reati connessi con la criminalità organizzata, il terrorismo, l’eversione, il sequestro di persona e il traffico di stupefacenti. In estrema sintesi il ricorso alla detenzione in carcere per presunti reati commessi contro la Pubblica amministrazione era contemplata soltanto se sussisteva il reale rischio di fuga dell’imputato e qualora ogni altra misura, alternativa al carcere, fosse ritenuta inadeguata.

Sul Decreto Biondi: una risposta al Procuratore della Lava Jato Roberson Pozzobon

Il Consiglio dei Ministri approvò il decreto all’unanimità e il giorno dopo il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, uno che certo non era tacciabile di simpatie berlusconiane, firmò il decreto. A partire da qui si mise in moto il perverso circo mediatico-giudiziario in salsa italiana, fatto di propositi di ammutinamento da parte della magistratura più politicamente schierata, a partire dal pool di Mani pulite, di titoli di giornali condiscendenti verso il giustizialismo di buona parte della magistratura italiana, come magnificamente messo in luce da un articolo di Piero Sansonetti (Così i giornalisti fecero i killer della prima Repubblica) e last but not least un popolo succube di un certo clima di odio, che all’epoca cominciò a tempestare le redazioni di giornali e televisioni di fax di protesta, ovviamente senza avere la minima cognizione di ciò che stava scritto nel Decreto Biondi, né delle sue implicazioni sullo squilibrato rapporto tra accusa e difesa nel processo penale italiano. Contrariamente a quanto espresso nel tweet del procuratore Pozzobon, il Decreto Biondi avrebbe potuto rappresentare uno spartiacque decisivo nella lotta alla corruzione in Italia, pesantemente segnata da un pool, quello della Procura di Milano, il quale, di prassi, usava la carcerazione preventiva al fine di stimolare confessioni, che, spesso, di veridico non avevano nulla. Vale a dire che gli imputati confessavano perché volevano uscire di galera o perché non ci volevano andare.

Come scrisse Filippo Facci in un suo editoriale su Il Post: “La prassi di Mani pulite, sin dall’inizio, aveva ipotizzato reati i più gravi possibili così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva: questo anche per violazioni di tipo amministrativo come il noto finanziamento illecito dei partiti. Per capirlo, in fondo, è sufficiente guardare quanti dei 1230 condannati di Mani pulite abbiano subito delle carcerazioni preventive a dispetto di pene poi risultate inferiori ai due anni, condanne ossia a cosiddette pene sospese, con la condizionale: quasi tutti. È noto: effettive condanne al carcere, alla fine di Mani pulite, praticamente non ce ne sono state”. Era tale tribunalizzazione della politica che il Decreto Biondi voleva, almeno in parte, correggere, anche avviando un processo di pacificazione tra politica e cittadini mai avvenuto in Italia e successivamente divenuto terreno di coltura per la creazione e affermazione dell’antipolitica totalitaria dei Cinque Stelle. Ma era proprio un simile processo di pacificazione ciò che che buona della magistratura italiana, specie dentro i ranghi di Magistratura Democratica, non voleva e ancora oggi non vuole. Un processo del tutto similare sta oggi accadendo qui in Brasile, dove i procuratori della Lava Jato, tra essi Roberson Pozzobon, dall’alto del loro gesuitismo giudiziario, ogni giorno di più erodono le basi dello Stato di diritto, preparando tempi ancora più bui di quelli che stiamo vivendo.

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