Opinioni
Sale lo spread, scende l’Italia: «lasciamoli lavorare?»
Antonluca Cuoco e Salvo Cozzolino 23/11/2018
Un’altra settimana terribile per l’Italia; un’altra settimana di tensione per il differenziale di rendimento tra i titoli decennali italiani e quelli tedeschi; un’altra settimana di deterioramento della credibilità del sistema Paese e della fiducia che le nostre istituzioni, e i loro rappresentanti pro tempore, dovrebbero preoccuparsi di preservare nei confronti dei Governi e degli investitori […]
Un’altra settimana terribile per l’Italia; un’altra settimana di tensione per il differenziale di rendimento tra i titoli decennali italiani e quelli tedeschi; un’altra settimana di deterioramento della credibilità del sistema Paese e della fiducia che le nostre istituzioni, e i loro rappresentanti pro tempore, dovrebbero preoccuparsi di preservare nei confronti dei Governi e degli investitori esteri, ma anche degli stessi cittadini italiani. Le banche stanno continuando a sostenere l’economia e ad adeguare lentamente il costo del credito per famiglie ed imprese, anche perché implicitamente sotto il ricatto della possibile ignobile modifica della leva fiscale minacciata dal Governo nella manovra di bilancio. Tuttavia se lo spread, alimentato dai sospetti ormai consolidati su possibili “Piani B” per uscire da Eurozona e dal tafazziano scontro con la Commissione Europea, dovesse restare sui 300 punti o peggio consolidarsi su livelli sensibilmente più elevati, le conseguenze sul Paese saranno devastanti. Sono in gioco la qualità della vita e i risparmi degli italiani, ma anche il tessuto produttivo di servizi e manifattura. Le aziende potrebbero tornare in sofferenza ed essere esposte al ritorno di un pericoloso “credit crunch” già sperimentato negli anni recenti, e dal quale stavano faticosamente uscendo.
Tra le voci che provano ad animare il dibattito pubblico italiano, fuorviato da spacciatori di bufale sovrane e da un sistema mediatico non sempre orientato ed incentivato ad offrire dati e analisi puntuali, c’è l’ABI-Associazione Bancaria Italiana che ha chiarito, senza inutili giri di parole, gli effetti del perdurare del differenziale BTP con il Bund: in primo luogo l’erosione del capitale delle banche, ma anche un aggravio di costi di credito per le imprese e per le famiglie. Fino ad arrivare all’inevitabile e conseguente riduzione degli investimenti in innovazione e all’impoverimento dello stock di risparmio. Tutti fattori che gravano negativamente sulla crescita e che inducono i più furbi ad informarsi su come portare i soldi all’estero, come si faceva qualche decennio fa, provocando ovviamente un impatto negativo sul Pil già in rallentamento. Sarebbe uno scenario di decrescita, ma tutt’altro che felice. Non si può reggere questo livello di spread per molto tempo. È una lenta agonia che piano piano rosicchia i nostri risparmi, ad esempio del Fondo Cometa, quello che gestisce i soldi di 400mila operai metalmeccanici. Questi lavoratori hanno versato i loro TFR, i loro risparmi, i loro contributi per circa 11 miliardi di euro. Ma gli effetti della tafazziana manovra sulla pelle del popolo pesano fortemente anche ovviamente sulle imprese: per il 2019 il totale degli interventi previsti toglierà risorse alle aziende per oltre 6 miliardi di euro. Ciò penalizzerà la competitività, scrive Confindustria.
A questi rischi squisitamente domestici dobbiamo poi sommare i fattori esogeni. Il rallentamento della crescita globale, ma anche l’esaurimento, programmato, dei nuovi acquisti di titoli di stato della Banca Centrale Europea nell’ambito del programma definito QE. Questi acquisti hanno contribuito, seppur parzialmente, a tenere alta la domanda di titoli dell’Eurozona, ma avevano come scopo principale lo stimolo della dinamica dei prezzi, cioè dell’inflazione. Raggiunto questo importante obiettivo la Banca Centrale ha comunicato che non farà nuovi acquisti, ma si limiterà a rinnovare solo le scadenze (ma non all’infinito). Alcuni Paesi hanno approfittato di questo e di altri stimoli monetari per avviare un percorso di riforme che consentisse di rispettare agevolmente il percorso di disciplina fiscale. L’Italia lo ha fatto solo in minima parte, condizionata dalle sue ataviche rigidità strutturali. In questo contesto si è svolta questa settimana l’asta del BTP Italia a 4 anni, titolo tradizionalmente ben accolto dal mercato retail, che ha invece avuto risultati disastrosi, lasciando molti dubbi sulla convinzione del Governo circa la voglia dei cittadini di sostenere ulteriormente il debito pubblico. Il MEF contava di raccogliere circa 10 miliardi, ma è rimasto fermo a 2 ed è probabile che i tecnici adesso si stiano ponendo il problema di ripresentarsi in asta prima di fine anno per colmare il fabbisogno. Asta che a questo punto sarebbe molto delicata. Nelle ultime ore i ministri Tria e Savona hanno cominciato a nutrire dubbi sull’opportunità di insistere sulla strada dello scontro, ma con motivazioni diverse. Resta il fatto che soprattutto il primo è costretto quotidianamente a ripetere storie e numeri che dal punto di vista macroeconomico appaiono lunari. Tutto questo serve a tenere in piedi politicamente i due viceministri della maggioranza di governo, che sono accecati dalla loro campagna elettorale permanente. Nel frattempo l’Italia affonda. E ci sono sempre più di duemila miliardi di debito pubblico, quasi 40mila euro sulle spalle di ogni italiano, bebè compresi, che continuano a crescere.