La verità del CSM su Sergio Bramini

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2019-04-14

Il documento del Csm, istruito dalla prima commissione (relatore Stefano Spina) e approvato dal plenum, rileva nell’eco mediatica del caso Bramini «un reale e grave turbamento al regolare svolgimento della funzione giudiziaria»

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Sergio Bramini, imprenditore fallito “per colpa dello Stato” e poi diventato consulente (non entusiasta) di Luigi Di Maio, oggi è protagonista di un articolo della Stampa che racconta la sua vera storia giudiziaria. Il documento del Csm, istruito dalla prima commissione (relatore Stefano Spina) e approvato dal plenum, rileva nell’eco mediatica del caso Bramini «un reale e grave turbamento al regolare svolgimento della funzione giudiziaria». Secondo la storia, Bramini è un imprenditore nel settore rifiuti: la Icom, società che ha fondato nel 1980, lavora per enti pubblici. Fatturato intorno a 3 milioni di euro, una dozzina di dipendenti. Racconta Bramini che dal 2005 cominciano a non pagarlo. Per mandare avanti l’azienda, pagare le tasse e non lasciare gli operai senza stipendio, s’indebita con le banche per 1 milione di euro e mette a garanzia anche la sua casa. Nel 2011, con 4,2 milioni di crediti da enti pubblici non riscossi, si arrende e porta i libri in tribunale. La banca aggredisce la casa e il giudice lo manda «in mezzo a una strada». Giuseppe Salvaggiulo ci fornisce invece la versione del CSM sui fatti:

I mutui bancari risalgono al 2001, prima del 2005: quindi non seguono il blocco dei pagamenti degli enti pubblici, ma lo precedono. Dopo il 2011, il curatore fallimentare avvia un’azione di responsabilità contro Bramini «per gravi condotte di aggravamento del dissesto»: gli imputa di «essersi attribuito quale amministratore, nell’ultimo periodo di vita della Icom, un compenso di 570 mila euro». La contestazione si chiude con una conciliazione: Bramini s’impegna a restituire 200 mila euro (mai versati). Il curatore aziona anche una revocatoria perché Bramini «circa un mese prima del fallimento aveva ceduto alla moglie, in sede di separazione consensuale», la casa ora pignorata (dopo lo sloggio forzato i due abitano insieme in affitto, «per risparmiare»).

Anche i crediti vantati dalla Icom verso gli enti pubblici sono controversi. Secondo il tribunale fallimentare di Milano «non erano certi, liquidi ed esigibili, bensì tutti contestati e in buona parte insussistenti». In soldoni: tra cause perse e cessioni già effettuate, la Icom ha incassato solo 500 mila euro e nella migliore delle ipotesi vanterebbe circa 1,6 milioni di crediti, non 4,2 milioni.

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Quello che tv e ministri mai hanno detto è che ben maggiori sono i debiti della Icom: 3,8 milioni di euro: 1,7 con il fisco; 1,1 con i fornitori, il resto con le banche. Dunque il principale creditore di Bramini (che non pagava Iva, Irpef, Irap, Tfr contributi previdenziali) è lo stesso Stato da lui additato come aguzzino. E per una cifra quasi doppia rispetto a quella, pur cospicua e ingiusta, che la Icom non ha mai incassato dalle pubbliche amministrazioni. Conclude il Csm: «È falso che la Icom sarebbe stata fatta fallire per le inadempienze di enti pubblici, che pure ci sono state e non si vuole trascurare».

Bramini ha avuto «atteggiamenti ostruzionistici»: mandava diffide e intimazioni «di vario genere», ha minacciato di morte il custode giudiziario. Il giudice Romito di Monza «aggredito, denigrato, offeso, diffamato», è stato stretto in una tenaglia politico-mediatica alimentata da una campagna costruita su fake news.

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