Economia

La vera storia delle royalties delle compagnie petrolifere

Giovanni Drogo 07/04/2016

È vero che siamo il paese con le aliquote più basse e la tassazione più alta? Quanto pagano le compagnie petrolifere e a chi vanno i soldi?

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Se per molti dei sostenitori del Sì al referendum del 17 aprile la questione era prevalentemente una battaglia ambientalista, dopo le rivelazioni sull’inchiesta sul giacimento Tempa Rossa che hanno portato alle dimissioni del Ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e la sentenza nel processo ai dirigenti della Total è venuto alla luce il dato squisitamente politico della battaglia referendaria. Non che fosse un segreto o che fosse nascosto, basta guardare la genesi del referendum – il primo proposto dai consigli regionali e quindi da organi politici – per comprendere come in realtà i problemi ambientali siano quasi del tutto marginali. Del resto non è in discussione l’apertura di nuovi pozzi entro le dodici miglia dalla costa (già vietati) e nemmeno il divieto di nuove concessioni al di fuori delle acque territoriali (che non esiste).
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Cosa pagano le compagnie petrolifere in Italia?

Il problema posto dal referendum è quindi, nonostante le rimostranze di Greenpeace e degli ambientalisti NO TRIV, una questione politica. Lo abbiamo spiegato ieri qui e lo ha scritto anche il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano in risposta ad un commento su Facebook: «prima il destino delle piattaforme petrolifere lo decidevano insieme lo Stato, le Regioni e i petrolieri. Adesso lo decidono solo i petrolieri. E questo secondo me non corrisponde all’interesse pubblico». Ma perché le Regioni sono così interessate ad avere voce in capitolo (e non il controllo esclusivo) di quello che succede sul loro territorio? La risposta è semplice e fa riferimento a quel “primato della politica” tanto caro negli ultimi giorni a Matteo Renzi. Se infatti, come sostiene Emiliano, l’eventuale vittoria del Sì non porterà all’automatica chiusura per legge – al momento del rinnovo delle concessioni – delle piattaforme al largo delle coste italiane (entro il limite delle 12 miglia ad eccezion fatta di quelle che hanno richiesto una proroga a dicembre 2015) quello che viene in tasca alle Regioni è un maggior potere decisionale al momento del rinnovo della concessione. Non si può escludere che ci siano consigli regionali che – sull’onda della volontà popolare – neghino il rinnovo della concessione, ma non si può nemmeno escludere che in forza del risultato referendario altre Regioni decidano di esercitare quel maggior potere contrattuale nei confronti delle compagnie petrolifere. La differenza è infatti tra il concedere un’autorizzazione una volta per tutte (ovvero fino ad esaurimento del giacimento) al momento del rinnovo oppure avere la possibilità di rinegoziare (perché di questo si tratta) la concessione ogni cinque anni. La battaglia politica è – anche – una battaglia per la tutela di interessi economici. E non si vede la ragione per cui tutelare gli interessi delle compagnie petrolifere – liberandole dall’obbligo di rinnovare la concessione ogni tot anni – possa essere considerata una battaglia “giusta” mentre difendere l’interesse degli enti locali – e quindi dei cittadini – che concedono i loro territori a quelle compagnie sia da considerarsi una scelta controproducente. E si entra qui nel tema su quanto “ci guadagnano” lo Stato, le Regioni e i Comuni dalle attività di estrazione di gas e di petrolio. Il dato di partenza sono le royalties, ovvero il canone che le compagnie petrolifere deve corrispondere allo Stato. Per l’Italia siamo ad un’aliquota del 7% per le estrazioni di petrolio in mare e del 10% per l’estrazione di gas che vengono però pagati solo se la produzione annuale supera le 50.000 tonnellate per il petrolio e gli 80.000 metri cubi per il gas. Grazie a queste franchigie impianti “poco produttivi” diventano convenienti perché poi la società produttrice può rivendere il prodotto “a prezzo pieno” In questo modo, riferisce La Stampa, “nel 2015 su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non versare il pagamento a Stato, Regioni e Comuni”. Gli eventuali proventi delle royalties (qui il gettito per il 2015) vengono così ripartiti e ci fanno capire come la pretesa delle Regioni di avere voce in capitolo non sia del tutto infondata, anche perché lo Sblocca Italia prevede che le Regioni che autorizzano attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi vengano in parte esentate dal patto di stabilità.
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Oltre a questo le compagnie petrolifere devono corrispondere un canone
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Come funziona nel resto d’Europa?

E naturalmente – come le altre società operanti in Italia – pagare IRES e IRAP per un ammontare totale del 54% degli utili. Ma è vero, come sostengono dall fronte referendario che in Italia si paga meno che nel resto d’Europa oppure è vero, come sostengono gli Ottimisti e Razionali (che però stranamente non menzionano l’esistenza delle franchigie) che in Italia si pagano più royalties che altrove? La verità, facilmente accessibile sul sito dell’ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse del MISE, è che nel resto del vecchio continente le royalties sono state pressoché abolite a favore di un sistema che garantisce un maggior prelievo dalle casse delle compagnie petrolifere. L’unico altro paese che mantiene le royalties, per altro con un’aliquota del simile alla nostra (10%), è la Germania dove però c’è da dire che i singoli Länder possono prescriverne una differente. Come Spiega la tabella del MISE “alcuni Länder hanno range di aliquota in cui si tiene conto, oltre che della produzione, anche di altri fattori quali la profondità dei pozzi, il recupero di produzione terziaria, della bassa permeabilità delle riserve ecc“. I canoni dovuti in Germania sono invece in linea con quelli italiani. Non è così altrove, in Danimarca ad esempio viene applicata una tassazione che può arrivare al 77%, in Inghilterra i canoni variano in base al bando e possono variare per i permessi di sfruttamento offshore dalle 68 alle 7.500 sterline al km quadrato, la tassazione in Regno Unito può arrivare anche all’80% mentre in Norvegia la tassazione arriva al 78% alla quale va aggiunto un canone che può arrivare anche a dodicimila euro al km quadrato. A quanto pare, nonostante la pressoché generalizzata assenza delle royalties negli altri paesi europei l’Italia continua ad essere un paese molto conveniente per le compagnie petrolifere.

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