Lavoro: quale modello tedesco per Matteo Renzi?

di Guido Iodice

Pubblicato il 2014-09-03

Secondo il premier, la Germania è un esempio per la riforma del mercato del lavoro. Ma si fa presto a dire “modello tedesco”. La “locomotiva d’Europa” infatti presenta un mercato del lavoro duale: lavoratori tutelati e ben retribuiti accanto al lavoro povero, sussidiato dallo Stato. Quale dei due modelli sceglierà l’Italia?

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«Dobbiamo smetterla di parlare male della Germania, sul lavoro la Germania è un modello, non un nostro nemico». Così si è espresso Matteo Renzi annunciando il programma dei “1000 giorni”, alla fine dei quali «il diritto del lavoro sarà totalmente trasformato e l’Italia sarà un Paese semplice in cui investire». Ma si fa presto a dire “modello tedesco”. La locomotiva d’Europa infatti presenta un mercato del lavoro duale: lavoratori tutelati e ben retribuiti accanto al lavoro povero, sussidiato dallo Stato.
 
I TUTELATI
Sebbene in Germania non sia mai esistito il reintegro obbligatorio previsto dal nostro vecchio articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, in realtà per i lavoratori a tempo indeterminato le tutele sono di fatto più stringenti di quelle italiane e si applicano già alla soglia del 10 dipendenti (non 15 come in Italia). In caso di licenziamento individuale, il datore di lavoro deve preventivamente comunicarlo al consiglio di fabbrica, organismo eletto dai lavoratori nelle imprese con più di 5 dipendenti. Se il consiglio ritiene il licenziamento ingiustificato, il lavoratore rimane al suo posto fino alla fine del procedimento giudiziario. Questo rafforza la posizione del lavoratore in giudizio che può appellarsi al fatto che sia rimasto al lavoro senza che ciò abbia causato danni all’impresa. Il datore di lavoro puoi non può licenziare chi vuole, ma deve considerate l’equità sociale, basandosi sulla durata trascorsa del rapporto di lavoro, l’età e gli obblighi di mantenimento familiare del lavoratore. Il complesso delle norme tedesche rende quindi piuttosto complicato il licenziamento arbitrario e, sebbene non obbligatorio, il reintegro non è un’eccezione. In alternativa, come del resto avveniva già in Italia prima della riforma Fornero, le parti possono accordarsi per un risarcimento, solitamente pari a 12 mensilità. Tutto ciò rende la protezione del lavoro in Germania più stringente che in Italia. L’indice OCSE sulla legislazione contro i licenziamenti assegna infatti alla Germania un valore sensibilmente maggiore dell’Italia sui contratti a tempo indeterminato: 2,87 per i tedeschi contro 2,51 per i lavoratori italiani (era 2,76 prima della riforma Fornero).
 
LA COGESTIONE: LUCI ED OMBRE DEL POTERE SINDACALE
Ciò che però sicuramente caratterizza maggiormente il “modello tedesco” è la cosiddetta “cogestione” (Mitbestimmung). Nelle imprese con più di 500 dipendenti i sindacati hanno diritto a nominare un terzo del Consiglio di sorveglianza, un organo che ha importanti poteri di controllo sull’impresa. La quota sale a metà per le aziende con oltre 2000 dipendenti. Grazie a ciò i lavoratori acquistano un potere contrattuale che non ha corrispettivi nel nostro paese. E’ da qui che passano decisioni fondamentali come le delocalizzazioni e in generale l’organizzazione aziendale e le condizioni di lavoro. In alcune imprese, come la Siemens, si è andati oltre grazie ad accordi sindacali che addirittura prevedono che il sindacato abbia potere di veto (quindi vincolante) sui licenziamenti. Tuttavia non si deve pensare che questo ampio potere sindacale significhi che le imprese sono gestite nell’interesse dei lavoratori e non degli azionisti. Al contrario, decenni di cogestione hanno portato a fenomeni di corruzione e consociativismo. Il caso più eclatante è stello della Volkswagen: Peter Hartz, l’architetto della riforma del mercato del lavoro dell’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, ha ammesso di aver corrotto il capo del sindacato quando era capo del personale del principale stabilimento del gruppo a Wolfsburg. Siccome tutto il mondo è paese, i “favori” riguardavano in particolar modo lo stile di vita dell’amante del sindacalista, per la considerevole cifra di quasi 2 milioni di euro.
 
I MINI-JOBS E IL LAVORO POVERO
Accanto ai lavoratori regolari, però, esiste in Germania una quota rilevante di lavoratori poveri. Le riforme Hartz hanno allargato le maglie del precariato. La forma più nota è quella dei mini-jobs, “lavoretti” part time pagati inizialmente 400 euro al mese (oggi la retribuzione è arrivata a 480 euro). Siccome difficilmente qualcuno accetterebbe di vivere con un salario così basso, ad integrare i redditi di pensa lo Stato, attraverso sussidi per le spese familiari generosi, anche se va detto che questi lavoratori, con retribuzioni così basse, rischiano di ritrovarsi a fine carriera una pensione letteralmente da fame. Il sistema di welfare, in altre parole, sussidia l’abbassamento del costo del lavoro. Il fenomeno è di larghissime proporzioni. La Germania infatti uno dei paesi con la maggiore percentuale di lavoratori a basso reddito, paragonabile a quella dei paesi anglosassoni, ma soprattutto è il paese dove la quota di lavoratori relativamente poveri è cresciuta maggiormente in conseguenza delle “riforme strutturali”.
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IL SALARIO MINIMO
L’ingresso dei socialdemocratici nel governo di coalizione con la CDU di Angela Merkel ha però introdotto la più importante riforma del mercato del lavoro mai avvenuta in Germania: il minimo salariale per legge. Dal 2015 esisterà una paga oraria minima di 8,5 euro sotto la quale nessun datore di lavoro potrà assumere un lavoratore. In effetti la Germania era, insieme all’Italia, uno dei pochi paesi ad affidarsi esclusivamente alla contrattazione collettiva per stabilire la retribuzione minima. Ma la crescita della precarietà e del lavoro povero ha ormai reso il contratto collettivo uno strumento insufficiente per evitare, o almeno ridurre, l’incidenza di buste paga che rassomigliano più ad una elemosina che ad uno stipendio.
 
QUALE MODELLO?
Parlare quindi di modello tedesco è dire tutto e nulla. Se ci riferiamo ai licenziamenti dovremmo stringere le viti della nostra legislazione, mentre sulla precarietà la Germania può darci lezioni non così entusiasmanti. Del resto il contenimento dei salari tedeschi, che sono cresciuti molto meno della produttività, insieme all’integrazione dell’Est Europa nella “grande fabbrica” tedesca, ha contribuito a creare quegli squilibri commerciali di cui i paesi meridionali e la Francia sono ancora oggi vittime. Cosa sceglierà Matteo Renzi? Forse è utile ricordare al presidente del consiglio di far presente anche alla cancelliera Merkel che non tutti possiamo essere contemporaneamente esportatori netti. A meno che non si sviluppi rapidamente il commercio interstellare.

Leggi sull’argomento: Le due vie di Renzi per l’articolo 18

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