Pandemia e salute mentale: perché non se ne parla abbastanza?

di Iacopo Melio

Pubblicato il 2022-04-04

Dobbiamo, a parer mio, parlarne il più possibile per “normalizzare” certe patologie, che sono più comuni di quanto si possa pensare

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Caro Iacopo…
Qualche tempo fa hai, giustamente, parlato degli atti di autolesionismo in aumento in alcune carceri, ma perché non si parla mai abbastanza di salute mentale, soprattutto in questo periodo?
Lucia.

 

Cara Lucia…
Tutto ciò che riguarda le disabilità o le malattie invisibili, per molti è come se non esistesse. Del tipo: finché ti vedo, ti tocco e ti percepisco, allora hai dignità per essere curato, altrimenti boh, forse, si vedrà, prima quelli “malati davvero”.
Il tutto, complicato ancor più dal fatto che la salute mentale è tutt’oggi un vero e proprio tabù: ci si vergogna, o si viene portati a questo, per l’ammissione di essere ansiosi, depressi, bipolari, borderline… Che poi, già utilizzare il termine “ammissione”, come se fosse una colpa o un crimine, dovrebbe far riflettere. Ma veniamo a noi.
In pandemia, tra paura dei contagi e isolamento sociale, la fragilità di ognuno è venuta ampiamente fuori, e così per la salute mentale è stata abbassata ogni tipo di difesa, in particolare quella dei giovani.
Lo stesso sportello psicologico della Onlus che ho fondato sei anni fa, #Vorreiprendereiltreno, ha visto un aumento importante delle richieste di sostegno. Le ragazze e i ragazzi sono stati, infatti, tra i primi dimenticati in questa emergenza: se da un lato c’era da proteggere gli anziani e le altre categorie più a rischio infezione, soprattutto nella prima fase, dall’altro c’era una fetta della società senza lavoro o che non sapeva come studiare, e con una visione sempre più incerta del proprio futuro, già precedentemente abbastanza precario. Fetta completamente sottovalutata nei suoi problemi silenziosi, perdendo di fatto i propri anni migliori.
Gli specialisti su questo si sono poi divisi: da un lato, c’è chi sostiene che questa pandemia sia servita a rendere i giovani maggiormente resilienti (“se non uccide, fortifica”, cantava il buon Tiziano Ferro); dall’altro, avrebbe creato una voragine in chi già soffriva di certe patologie, soprattutto se necessitavano di un aiuto costante che a causa del lockdown è venuto meno.
Non dimentichiamo, poi, i fattori socioculturali ed economici: è brutto da dire, ma vivere in una famiglia più povera, purtroppo, offre minori mezzi per affrontare le difficoltà, senza contare il fatto che, in questi casi, l’abitazione è spesso meno grande e comoda rispetto a quelle di famiglie più agiate, o magari priva di accesso ad internet o svaghi, e così ogni chiusura significa un po’ restare come dei leoni chiusi in gabbia, per quanto necessario per la salute pubblica. Il tutto, assorbendo anche i disagi della famiglia stessa: genitori, nonni, fratelli e sorelle.
Credo che ammettere tutto questo non sia facile. Restare da soli, a prescindere dalla giusta motivazione, è comunque una fatica. E soprattutto una conseguenza di responsabilità politiche, amministrative e logistiche, ma anche sanitarie.
Dobbiamo, a parer mio, parlarne il più possibile per “normalizzare” certe patologie, che sono più comuni di quanto si possa pensare. È dobbiamo farlo affinché se ne prenda atto evitando, in futuro, situazioni che le amplifichino.
Perché se è vero che “sono giovani, sono forti, hanno un futuro davanti”, è altrettanto giusto ricordare che basta una crepa alla base, oggi, per far crollare un castello intero domani.
Un abbraccio,
Iacopo.

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