The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 8. Dimmi quando quando quando…

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-19

Giovedì, 19 marzo 2020. Un’ora di fila per fare la spesa. Torno a casa, poso le buste sul tavolo e mia madre mi fa: “Senti ma… Non è che potresti andare anche in farmacia? Ho finito la tachipirina.” “Non ti senti bene?” “Nooo, solo un po’ di mal di testa.” Guarda dentro le buste della …

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Giovedì, 19 marzo 2020.

Un’ora di fila per fare la spesa. Torno a casa, poso le buste sul tavolo e mia madre mi fa:
“Senti ma… Non è che potresti andare anche in farmacia? Ho finito la tachipirina.”
“Non ti senti bene?”
“Nooo, solo un po’ di mal di testa.”

Guarda dentro le buste della spesa e non ha niente da ridire. Anzi, mi ringrazia di aver preso le mele della marca che piace a lei. E qui c’è davvero di che preoccuparsi. Un altro po’ ed è buona di darmi una carezza. E infatti lo fa. Una carezza! A me! La figlia degenere…

Poi, la vedo che si siede e si passa una mano sulla fronte, guardando sconsolata, davanti a sé.
“Hai la febbre?”
“37 e 5.”
Cazzo.
Ho letto che il corona virus spesso comincia con febbriciattole così… Però non ha né tosse, né raffreddore. E passa tutto il tempo barricata in casa. Certo, potrei benissimo averla contagiata io, anche se cerco di prendere tutte le precauzioni possibili, quando esco. Basta solo il pensiero, per farmi venire una fitta allo stomaco.

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“Cosa vuoi che ti faccio, da mangiare?” mi chiede.
“Quello che vuoi.”
“Ho ancora un po’ di ragù.”
“Ottimo. Vado e torno, spero che non ci sia troppa fila.”

Esco di casa e mi faccio tutto corso Cavour fino a svoltare sotto i portici di corso Mazzini. Vivere in un piccolo paese ha i suoi vantaggi. E’ tutto vicino. Ma anche davanti alla farmacia c’è la fila. Tutti a tre metri di distanza, fino a dove c’è la banca. Tra questi, becco il drago, che subito mi fa cenno. Se voglio, dice, mi prende lui quello di cui ho bisogno, così evito di perdere tempo. Lo ringrazio, faccio per allontanarmi e tenere le distanze, ma lui vuole farmi vedere una cosa. La scorsa domenica, quando non c’era proprio nessuno nessuno in giro, con tutti i negozi chiusi, anche gli alimentari, è uscito per farsi un selfie in piazza. L’ha messo su Instagram e non ha fatto che prendersi una valanga di insulti.
“La gente è fuori! Cioè, se vado in piazza da solo, chi cazzo vuoi che vado a infettare?”
“Vabbè, potevi evitare.”
“Dici che dovrei toglierlo?”
“Ormai la frittata è fatta.”

Che tipo, il drago. Anche lui suonava con me. L’unico esempio di chitarrista al mondo che teneva basso il volume dell’ampli. Una contraddizione in piena regola, perché i chitarristi, si sa, son tutti pavoni. Lui, di sicuro, faceva eccezione. Un drago senza fauci e fuoco da sputare. Che chissà chi gli aveva messo quel soprannome così beffardo e distante dalla sua natura mansueta.
Ho sempre pensato che nascondesse il suono della sua chitarra per timidezza, ma si vede che ora si è fatto contagiare dal narcisismo dei social. Che di sti tempi, però, può costare caro…

Si avvicina un vigile urbano.
“Oh drago, cos’è che ci facevi in piazza, l’altro giorno?”
“Ma niente, sono uscito a sgranchirmi le gambe.”
“Quindi senza un valido motivo. Guarda che ti devo fare la multa.”
Non ci posso credere. A questo siamo arrivati…
“E lei signorina, si allontani. Tenga le distanze.”
“Vedi di non rompere il cazzo” gli rispondo, che lo conosco quel vigile. Sempre stato stronzo, figuriamoci oggi.
“Favorisca i documenti.”
No vabbé… Lo mando affanculo e mi allontano.
“Favorisca i documenti!” prende a sbraitare, seguendomi.
“Fanculooo!” ripeto, alzando il dito medio. Accelero il passo, ma mi accorgo che continua a starmi dietro. Non vuole fare figuracce davanti a tutti, evidentemente.

Svolto all’angolo, lungo via Antonioli, e prendo a correre. Non faccio in tempo ad arrivare davanti alla Basilica di San Quirino che mi si para davanti un’auto dei vigili urbani. Cazzo è? Un agguato?
“Fermatela!” grida lo stronzo. Escono in due, dalla macchina, e fanno per avvicinarsi. Fuggo via, ma non so dove andare, men che meno a casa di mia madre, con sti due alle calcagna, così… Mi arrampico sulla statua di Antonio Allegri, detto il Correggio, che campeggia al centro della piazza.
Non so nemmeno io come faccio, a salire su quel piedistallo di marmo alto due metri, ma ci riesco. E da lassù, voglio proprio vedere come faranno a rompermi le palle.
“Scendi!”
“STO CAZZO!”

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Mi tengo abbracciata al corpo scolpito del pittore rinascimentale, lo sguardo severo di chi si accinge a dipingere soltanto capolavori, e minaccio di spaccare il pennello che tiene in mano.
“Così ve lo infilate su per il culo! Che tanto lo so che vi piace!”
“Vedi di non peggiorare la situazione, deficiente!”

Dalle finestre che si affacciano sulla piazza, spuntano una serie di teste. Tutti a godersi lo spettacolo. Tra questi, scorgo Pippo, un poeta strampalato che un tempo apriva le serate dei nostri concerti.
Vedo che mi saluta e lo chiamo.
“Dai, facciamo un po’ di spettacolo!” grido. “Recitiamo i Quando!”
Erano un suo vecchio cavallo di battaglia, che da tempo aveva messo da parte, che un po’ forse se ne vergognava. Ma questa volta non si fa pregare.
“Quando ti insaponi le chiappe…” ha preso a declamare.
“… il mio uccello va nei matti!” gli rispondo al volo.
Le risate echeggiano per tutta la piazza. Anche uno dei vigili prende a sghignazzare, subito rimbrottato dagli altri due, che però non sanno più che pesci pigliare. La piazza, ormai, è tutta dalla mia parte.
“Quando ti slinguazzo la clitoride…”
“… Più non temo la sifilide!”
Questa provoca un vero e proprio boato. Che paese di matti, il mio.

Ed è lì, nel tripudio generale, che una macchina parcheggia e scende Gulliver, che poi sarebbe il sindaco, anzi la sindachessa, fresca di mandato dopo aver vinto le recenti elezioni al primo turno.
Qualcuno le ha dato quel soprannome, in un post su Facebook, perché davanti a lei, tutti sembrano Lillipuziani.
Incede con passo militare, quasi calzasse gli stivali, come un commissario sovietico in piena Guerra civile russa, che poi la matrice è quella e da noi c’è ancora chi ne sente la mancanza.
Confabula con i vigili, si fa spiegare la situazione e poi li invita a risalire in macchina e battere in ritirata.
Quindi si rivolge a me, che tanto mi conosce da una vita, sa che ho sempre avuto qualche rotella fuori posto, ma non sono cattiva. Qualche volta facevamo pure i compiti assieme e mi aiutava sempre, con la matematica. Anche questa volta, è lì per aiutarmi, che in fondo non ho infranto nessuna regola, anche se ho mandato a quel paese un vigile.
Sfoggia il solito rossetto scarlatto che spunta sotto un caschetto di capelli biondi, lisci come spaghi, la solita messa in piega perfetta che non so come faccia visto che i parrucchieri sono tutti chiusi, e va dritta al sodo. Scandendo le parole come pietre, che però non intende scagliare.
“Adesso scendi, Angela. Subito.”

Non me lo faccio ripetere. E’ giusto così. Lo spettacolo è finito. Quando me la ritrovo davanti, evita ogni possibile rimprovero.
“A casa tutto a posto? Tua madre?”
“Mia madre, bene.”
“E Luciano?”
“E’ rimasto a Roma.”
A vederla più da vicino, seppur a debita distanza, che ormai bisogna far così con tutti, mi accorgo che ha lo sguardo stanco, affaticato. Devono essere giorni difficili, per lei, a gestire tutta l’amministrazione. Ed io, che mi sono divertita a fare la scema, sprofondo in un mare di imbarazzo.
“Devo andare in comune. Magari una di queste sere ci sentiamo. Non sapevo che fossi tornata su” dice salutandomi con un cenno della mano.
“Ok, chiamami quando vuoi.”

La gente affacciata alla finestre torna a farsi i fatti propri e io riprendo corso Cavour per tornare a casa.
Appena entro, sento il profumo del ragù. Mia madre è già pronta per mettere in tavola.
“Hai dovuto fare tanta fila? C’era gente in farmacia?”
Cazzo, la tachipirina! Me ne sono del tutto dimenticata… Ed ora cosa le dico?
Squilla il campanello. Dal videocitofono, compare il volto del drago.
“Oh pistola, ti ho portato queste” dice mostrando due confezioni da 500.

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