Nadia Nadim, la stella del calcio fuggita ai talebani che studia da chirurga

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2021-08-23

Orfana di padre, ammazzato dai talebani, a 11 anni è fuggita dall’Afghanistan in cerca di un futuro migliore, diventando una delle calciatrici più forti di sempre. E ora sogna di curare gli altri

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Quella di Nadia Nadim è una storia che racconta più e meglio di altre cosa significhi vivere e sopravvivere alla furia dei talebani. Una storia che comincia nel 1999, una vita fa, praticamente un’epoca, in un’era geopolitica in cui l’attentato alle Torri gemelle era ancora di là da venire e l’Afghanistan era solo una macchia di terra arsa e devastata dalla siccità dimenticata laggiù, da qualche parte, su una cartina, nel Medio Oriente, e i talebani i padroni incontrastati del Paese.

Nadia è nata ad Herat e si è trasferita con la famiglia a Kabul da piccola e ha imparato presto a conoscere i talebani quando, a 11 anni, giovane studentessa come tante, ha visto suo padre, Rabani, generale dell’esercito afghano e militare di carriera, prima arrestato dagli “studenti coranici”, poi sequestrato, torturato, infine ucciso nel deserto. La sua colpa? Era considerato un “sovversivo”, uno di quelli che non si era allineato al nuovo regime talebano all’insegna dell’oltranzismo islamista che, tre anni prima, aveva preso il potere con un colpo di stato, instaurando la dittatura della Sharia e imprigionando, di fatto, le donne afghane nel burka e nell’ignoranza. Non è un caso che uno delle prime leggi volute dai talebani fu quella di proibire la scuola alle giovani afghane, considerate promotrici della propaganda occidentale e anti-islamica. Nadia è solo una ragazzina quando, dalla mattina alla sera, le viene impedito di tornare a scuola.

afghanistan destino donne
foto IPP/zumapress Mehtarlam, Afghanistan 15/08/2021 le truppe talebane Talebani militanti conquistano Kabul
nella foto . soldati talebani
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Orfana di padre, perseguitata dai talebani, tenuta in ostaggio in una vita che non le appartiene più, Nadia, insieme alla mamma Hamida e alle quattro sorelle, decide così di mettersi in viaggio alla ricerca di un Paese e un futuro migliori. Con l’aiuto di alcuni contrabbandieri e grazie a passaporti falsi, Hamida e le quattro figlie viaggiano per mesi, nascoste in camion di fortuna, dormendo nelle stazioni e passando anche dall’Italia, prima di riuscire a raggiungere un campo rifugiati in Danimarca. Qui accade l’evento che le cambierà la vita: qualcuno la nota mentre gioca a calcio in mezzo ai maschi per le strade di Copenhagen. Nadia ha un talento innato e smisurato e con quel pallone fa quello che vuole. Da lì arriva il suo primo ingaggio nell’Aalborg, a 16 anni, prima tappa di una ascesa eccezionalmente rapida che la porterà a segnare oltre 200 gol, a vestire per 98 volte la maglia della Nazionale di quello che nel frattempo è diventato il suo Paese, la Danimarca, e a diventare una stella di prima grandezza del calcio femminile europeo e internazionale. Mica male per una ragazzina orfana di padre e profuga di guerra che, a 11 anni, è fuggita dal suo Paese nascosta sotto un camion per sfuggire a guerra, miseria e ai talebani.

E, mentre faceva tutto questo, Nadia Nadim, che oggi ha 33 anni, ha trovato pure il tempo di imparare e parlare quasi perfettamente 9 lingue, è stata citata da Forbes tra le 20 donne più influenti dello sport mondiale, nominata dall’Unesco ambasciatrice per l’istruzione di giovani donne e per promuovere l’importanza della parità di genere, e si sta per laureare in Medicina con l’obiettivo dichiarato di diventare chirurga ricostruttiva, una volta appesi gli scarpini al chiodo, proprio lei che non ha mai dimenticato gli orrori della guerra. Il suo primo pensiero, dopo la presa del potere dei talebani nel suo Paese, è stato: “È straziante. Dopo vent’anni che tentiamo di uscire da tutta quella mer** che è successa, ora siamo punto a capo. È sconvolgente”.

Afghanistan

Quando sentiamo dire che “non possiamo accoglierli tutti”, quando la tragedia umanitaria afghana viene banalizzata, snobbata, dimenticata, ricordatevi del volto e della storia di Nadia Nadim, perché è a donne come lei, un tempo bambine in fuga dai talebani, come decine di migliaia di altre bambine oggi, che state negando l’opportunità di vivere la propria vita, di aspirare a un futuro degno di questo nome, il loro diritto a inseguire i propri sogni e a realizzarsi. Non bisogna essere certo Nadia Nadim per “meritare” di ottenere un corridoio umanitario che le possa mettere in salvo. Ma essere Nadia Nadim aiuta a capire in modo plastico quali vite stiamo lasciando indietro e a chi. E non c’entrano le lingue, i successi o i premi. È questione di dignità. Anche la nostra.

 

 

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