Cosa non va nella moneta fiscale di Beppe Grillo

di Guido Iodice

Pubblicato il 2017-03-28

Il blog di Beppe Grillo (anche il suo avvocato dice che non è di Beppe Grillo) ha pubblicato un intervento del prof. Gennaro Zezza nel quale si spiega perché l’euro è brutto e cattivo. Alla fine però l’economista ammette che uscire dall’euro è un po’ difficile: “L’uscita unilaterale dall’euro comporta una rottura di trattati, comporta …

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Il blog di Beppe Grillo (anche il suo avvocato dice che non è di Beppe Grillo) ha pubblicato un intervento del prof. Gennaro Zezza nel quale si spiega perché l’euro è brutto e cattivo. Alla fine però l’economista ammette che uscire dall’euro è un po’ difficile:

“L’uscita unilaterale dall’euro comporta una rottura di trattati, comporta una manovra di tipo aggressivo nei confronti dei nostri partner. Discutere se sia tecnicamente possibile oppure no non è neanche opportuno in questa sede, sicuramente è possibile, ma sicuramente i costi politici da sostenere sono alti”.

Finalmente qualcuno che non pensa all’uscita dall’euro come ad una passeggiata. Anche se, va detto, mica si tratta solo di “costi politici”. Magari. L’uscita dall’euro e la ridenominazione del debito pubblico sarebbero l’equivalente di un default, come hanno spiegato recentemente le agenzie di rating a Marine Le Pen. Con tutto ciò che ne seguirebbe per l’affidabilità creditizia non solo dello stato, ma anche delle banche e delle imprese private. Prosegue Zezza:

“Ci sono delle alternative: una di queste è la reintroduzione in Italia di quella che possiamo chiamare una “moneta fiscale”, una moneta che non è moneta legale e quindi non va a violare i nostri trattati, ma che possa restituire al governo la capacità di effettuare un piano di investimenti e per sostenere il reddito dei cittadini, insomma un piano di rilancio”.

La proposta a cui allude Zezza è quella dei “certificati di credito fiscale”, che consistono in titoli con i quali lo Stato dovrebbe pagare spese varie e che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbero valore perché con essi ci si potrebbero pagare le tasse. I CCF secondo costoro diverrebbero quindi una moneta di fatto, che potrebbero essere utilizzati anche per comprare la frutta al mercato. Anche Berlusconi ha parlato di questa possibilità e il responsabile economico della Lega ha proposto dei “mini-bot” da emettere prima di uscire dall’euro. Peccato che le cose siano molto più complicate di così.
gennaro zezza beppe grillo
In primo luogo i promotori danno per scontato che l’emissione di questa quasi-moneta non violi i Trattati. Ammesso che sia così, tuttavia è facilmente immaginabile che la Commissione europea chiami lo Stato a rispondere davanti alla Corte di giustizia. L’incertezza sull’esito farebbe precipitare il valore del CCF nei confronti dell’euro, rendendoli poco più che carta straccia. Ammettendo però che la Commissione non ci porti davanti alla Corte per violazione dei Trattati, in ogni caso i CCF andrebbero sommati allo stock del debito pubblico. Anche qui, i promotori insistono sostenendo che non sia un problema, ma la Commissione potrebbe porre comunque ostacoli che minerebbero la fiducia del pubblico. E siccome il valore di un mezzo di pagamento dipende dalla fiducia del pubblico, i CCF presto precipiterebbero nei confronti dell’euro, con effetti sociali noti: nei paesi in cui vige la doppia circolazione valutaria la moneta forte diventa quella dei ricchi, la moneta debole è per i poveri.
Secondo i promotori l’aumento di spesa tramite CCF dovrebbe generare effetti moltiplicativi che permetterebbero maggiore crescita e quindi aumento del gettito fiscale. La gente però potrebbe semplicemente decidere di non spendere i CCF, ma detenerli fino a quando potranno essere usati per pagare le imposte, peraltro l’unico momento in cui il valore dei CCF potrebbe essere considerato sicuro ed uguale a quello stampato sul pezzo di carta. In tal caso, l’effetto espansivo sarebbe nullo e lo Stato si troverebbe con un buco di bilancio imprevisto.
Il modello spesso richiamato è quello dello Stato della California che nel luglio 2009, di fronte ad una grave crisi delle proprie finanze, emise delle “promesse di pagamento” (Registered Warrants) per pagare i dipendenti pubblici, i fornitori e coloro che vantavano diritti a rimborsi fiscali per 2,37 miliardi di dollari. Anche i Warrants potevano essere usati per pagare le tasse dovute allo Stato della California e avevano persino un tasso di interesse. L’esperimento non fu propriamente un successo: le principali banche si rifiutarono dopo pochi giorni di accettare questi “pagherò” (o come li chiamano gli americani, IOU, che sta per I Owe You, “io ti devo”). Solo dopo ingenti tagli di spesa e aumenti delle imposte decisi dallo Stato, alcune di esse tornarono sui loro passi e ricominciarono ad accettare i Warrants. Ma il programma fu interrotto dopo appena due mesi dal suo varo. Se l’operazione ha mostrato i suoi limiti in California, lo Stato con il reddito più alto nel paese più ricco del mondo, la speranza che funzioni in luoghi come l’Italia è pressoché nulla, tanto più se l’immaginiamo come soluzione transitoria verso l’uscita dall’euro: che valore avrà un titolo in euro emesso da un governo che ha annunciato l’uscita dalla moneta unica, diventando insolvente su oltre due trilioni di debiti in euro?
Se ne deve essere reso conto anche il “capo” di Zezza al Levy Institute di New York, tempio della Modern Money Theory: l’economista greco-americano Dimitri Papadimitriou. Appena nominato ministro da Tsipras si è affrettato a spiegare che la Grecia deve rimanere nell’euro e che la sua proposta di “moneta parallela”, simile ai CCF, era da considerarsi sbagliata.
Una lezione anche per gli economisti noeuro di casa nostra. Sulla carta si può immaginare un mondo di fantasia dove la gente crede che un pezzo di carta firmato da Sibilia valga come quello firmato da Draghi. Nella realtà le cose vanno molto diversamente.

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