Opinioni
Il medico notturno e la carnefice che scopre di essere una vittima
Giovanni Palombo 01/09/2019
“Alessitimica” era la parola che la mia piccola Ludovica aveva scritto in fondo al blocco di appunti e l’aveva sottolineata più e più volte, indicandomela come fosse una specie di vittoria. Due ore prima le avevo portato con l’ambulanza una donna di mezza età, che aveva avuto un crollo nervoso ed aveva richiesto il mio intervento. La […]
“Alessitimica” era la parola che la mia piccola Ludovica aveva scritto in fondo al blocco di appunti e l’aveva sottolineata più e più volte, indicandomela come fosse una specie di vittoria. Due ore prima le avevo portato con l’ambulanza una donna di mezza età, che aveva avuto un crollo nervoso ed aveva richiesto il mio intervento. La donna era talmente provata, sia fisicamente che psichicamente, che avevo deciso di accompagnarla in ospedale salendo anche io sull’ambulanza e lasciando la mia auto sotto casa sua. Ludovica era la psichiatra in servizio, era informata del nostro arrivo e ci stava aspettando con la solita puntigliosa precisione, propria di quelle che sono state le prime della classe tutta la vita. Prese la paziente per mano e sorridendo mi disse: “Sistemo la signora e poi ci andiamo a mangiare una cosa, io sono a fine turno e tu sei a piedi, giusto?”
“Sì Ludo, giusto, e poi un invito a cena da una bella strizzacervelli sarebbe da pazzi rifiutarlo, no?” Sorrise e si portò via la paziente facendomi segno di seguirla. Entrarono nel suo studio ed io le seguii e mi misi in un angolo: non avevo mai assistito ad una visita psichiatrica e la cosa mi incuriosiva. Sono abituato a tastare ad auscultare, a tamburellare con le dita per cercare di comprendere in questo modo le cose che non vanno in un organismo. La mia medicina si vede, si tocca, si annusa, ha un che di concreto che mi rassicura perché si puo’ misurare, evidenziare. La medicina di Ludovica, invece, risiede nei pensieri, nei meandri della coscienza, dell’Io, appare e scompare in una specie di caccia alle streghe senza una logica. Ludo vive sul confine tra corpo e anima e sembra trovarcisi bene: è il suo posto naturale. Inizia la visita e la mia perplessità cresce: le mie domande sono secche, banali, essenziali nel tono e nella forma, quelle di Ludo , invece, assomigliano ad una chiacchierata tra amiche, ad un incontro informale. Quel colloquio , le due donne, lo avrebbero potuto fare al bar o in palestra e non in uno studio del policlinico, sarebbe stata la stessa cosa. La paziente ha smesso di piangere come per magia e si lascia tenere la mano dalla psichiatra , il suo respiro diventa regolare e inizia a raccontare le sue cose. Quella piccola peste bionda, avvolta in un camice che sembra cucito su misura per lei dalle mani delle fate del bosco, si volge verso di me e mi guarda con i suoi occhioni celesti accennando un sorriso. E’ come se avesse voluto dirmi che tutto stava andando bene e che presto saremmo stati davanti a un piatto caldo e a un buon bicchiere di rosso d’annata.
Le sue domande si susseguono seguendo uno schema che fatico a comprendere, si allontana da un argomento, sembra abbandonarlo ma dopo due minuti è di nuovo lì e la paziente apre, senza accorgersene, quelle porte che prima erano chiuse. Vedo la dottoressa dai riccioli d’oro alla Shirley Temple, aggirarsi all’ interno del labirinto dei pensieri della paziente con passetti piccoli e misurati, con un fare delicato e leggero, tipico di chi ha paura di fare danni o di innescare meccanismi di rifiuto e di chiusura. È una ladra di pensieri. La paziente racconta del suo vissuto, dei suoi problemi e si lascia condurre a ritroso nei suoi pensieri come se stessero , insieme, cercando qualcosa o qualcuno. La piccola Ludo è come se avesse indossato i guanti da chirurgo e avesse iniziato a sezionare, con delicata spietatezza, l’anima di quella donna. Le sue domande sono colpi di bisturi inferti con assoluta maestria e precisione: le difese della donna cadono una ad una come i petali di una rosa. Strabiliante. Inizio a capire meglio la strategia del medico che cerca di catturare ed isolare un nemico evanescente, che non è fatto di cellule impazzite o di depositi di calcio, ma è aeriforme, inconsistente, privo di fisicità, ma egualmente in grado di annientare un essere umano. Ludovica, parla, domanda e annota sul suo blocco un fiume di parole, disegna geroglifici che sembrano tanto gli scarabocchi che si disegnano sul foglio quando non sai come passare il tempo. I suoi gesti sono misurati, delicati e sembra non distogliere mai l’attenzione dalla sua paziente.
Ora il racconto della donna inizia ad avere un senso, una consecutio logica, una serie di nessi ordinati tra causa ed effetto: la piccola Ludo ha trovato il bandolo della matassa e tenta di condurre la sua paziente al di fuori di quel groviglio inestricabile.
Sono rapito da tanta maestria: il chirurgo ha trovato il male, che covava nascosto in profondissimi anfratti, e lo sta asportando. Non c’è sangue ma c’è un dolore oscuro, angosciante, talmente reale che lo si potrebbe davvero tagliare con una lama. La donna annuisce e sorride, sembra sollevata come se si rendesse conto che quella dottoressa minuta, dalla pelle bianchissima e dall’aria fragile, si sia caricata sulle spalle una parte consistente del suo disastro. Ecco, la chiave è il riconoscimento e la condivisione del dolore. Il racconto si fa intimo, la donna parla delle sue passioni, dei suoi amori, di un fidanzamento e un matrimonio vissuti più per convenzione sociale che per reale convinzione. Parla del rapporto con il marito che la ha accudita e venerata per trent’anni e che lei ha ripagato con il tradimento e la menzogna. Sensi di colpa feroci, circondati da un vuoto pneumatico, da una totale assenza di sentimenti ed emozioni. Una famiglia formalmente perfetta, costruita sulle solide basi di un conformismo di circostanza e su modelli preconfezionati e socialmente accettati. Una vita senza slanci affettivi , senza la vera capacità di amare e di lasciarsi amare. Un senso del dovere opprimente, ma necessario come la droga per poter riuscire a sopravvivere al dolore. La donna ammette con devastante naturalezza l’incapacità di provare emozioni, di esserne coinvolta genuinamente. Ha un’aria stupita quando la piccola Ludo le chiede della sua vita sessuale: la donna non comprende che il sesso è parte integrante di un rapporto amoroso e affettivo con il partner. Afferma di ritenerlo superfluo e inutile, fastidioso al punto di aver costretto il marito ad un digiuno sessuale durato decenni. La psichiatra la incalza chiedendo come mai il marito abbia accettato questa vicinanza di privazione e di prolungata sofferenza accanto a lei e domanda se l’uomo abbia mai fatto dei tentativi per cercare di risvegliare in lei la fiamma di una passione erotica di cui non si trova alcuna traccia.
Un matrimonio e una famiglia perfetti ma senza un amore reale: ipocrisia funzionale. La paziente ha di nuovo gli occhi lucidi e snocciola una serie di tentativi fatti dal marito con il fine di aiutarla a vivere pienamente la sua dimensione di donna. L’uomo le ha provate davvero tutte: dalle cure mediche per stimolare gli ormoni di lei, alle trasgressioni casareccie e maldestre, insomma, tutto quello che si poteva tentare l’uomo l’ha tentato. Ludovica non capisce se la donna nutra per il marito amore o odio, ammirazione o sopportazione. La paziente è confusa e non riesce ad articolare un pensiero con un senso compiuto e definito. È una domanda banale ma che nella psiche della donna non ha risposta: lei non lo sa, semplicemente. Ha trattenuto al suo fianco un uomo, che la ha amata per una vita senza riserve, e non se ne è mai accorta. Resto basito: le mie polmoniti sono molto più semplici, sicuramente. “Perchè il tradimento, perchè ha scelto di annientare l’uomo che aveva accanto e che, da come dice, la amava follemente?” La donna non sa rispondere, non conosce il motivo o se lo nasconde e allora il bisturi della piccola Ludovica torna a scavare inesorabile. “Che cosa le dava il suo amante di tanto irrinunciabile che lei è stata disposta a frantumare integralmente la sua famiglia, i suoi affetti, la sua dignità?” Silenzio. “Perché non se ne è andata via, perché non si è separata per vivere compiutamente questa sua nuova avventura?” La paziente accenna delle risposte ma è come lo studente pizzicato impreparato dal professore: balbetta. “Dottoressa, non c’era niente: né passione né sentimento né amore”. Ludo appare contrariata e il tono si fa più deciso: “Ma lei cosa ci trovava in questa relazione clandestina, un antidoto alla noia, una esplosione sessuale?”
“Le ho risposto , dottoressa, non c’era nulla! Con il mio amante io non ho mai avuto un orgasmo e sessualmente, poi, era un disastro. No, non è per queste cose che ci sono andata a letto!” “Va bene, signora, ho capito, ma un adulto compie delle scelte, mette sul piatto pro e contro ed è insolito che si riesca a portare avanti per tanti anni una relazione fondata sul nulla, sbaglio?” “Non lo so, dottoressa, forse cercavo una gratificazione, una fuga dalla routine, un momento solo mio al di fuori delle convenzioni. Mi sentivo elettrizzata dal fatto che lui mi cercasse, mi volesse”. La donna prosegue nella narrazione snocciolando una serie di elementi terrificanti e incomprensibili. Ne viene fuori un quadro tossico in cui la personalità narcisista di lui prevale sulle difese emotive di lei e ne fa il proprio oggetto sessuale, il proprio capriccio in una storia totalmente destrutturata. L’ uomo ha volutamente manipolato la psiche della donna rendendola una specie di fantoccio, azzerandone ogni capacità critica e votandola alla esclusiva esaltazione del proprio ego narcisista. Lui schioccava le dita e lei correva pervasa da un’ ansia di abbandono, i rapporti sessuali erano bestiali e improntati all’ esclusivo soddisfacimento delle voglie dell’uomo senza nessuna partecipazione emozionale da parte di lei. Un rapporto basato sull’uso della donna, resa schiava in ogni suo ambito vitale: una violenza carnale, uno stupro durato decenni e alimentato dai sensi di colpa di lei e dall’assoluta anaffettività di lui. Terrificante.
Ho dinanzi a me una donna la cui identità come persona è stata devastata, azzerata e lei , forse, solo ora ne sta prendendo conscienza. Questa donna, a momenti appare fragile e vulnerabilissima e, dopo poco, veste i panni di una mantide priva di ogni scrupolo e di ogni rimorso. Ora è contrita, ora è gelida, fredda, distaccata, non emotivamente coinvolta come se non fossero fatti suoi. In un corpo risiedono due o più entità diverse ma accomunate da una unica devastante ideazione di autodistruzione. Alla fine tutti e tre ci rendiamo conto che il processo distruttivo è stato compiuto ed è stato più tagliente del bisturi della piccola Ludovica. Sono passate diverse ore, le due donne continuano a parlottare fitto fitto, dovrò dire addio alla cena con la mia piccola peste e chiamare un taxi.
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