Lo Stato dentro ILVA

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2019-12-09

Cassa depositi e prestiti, Snam e Arvedi gestiranno l’impianto con Mittal. Confermato l’obiettivo di produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno con un minore impatto ambientale e 1.800 esuberi. L’alternativa è la Cina

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Lo Stato tornerà ad essere imprenditore dell’acciaio dentro ILVA come ai tempi dell’Italsider.  Il piano del governo per salvare le acciaierie di Taranto e le migliaia di posti di lavoro che dipendono dalle sorti dell’ex-Ilva avrà un partner pubblico come Cassa depositi e prestiti, un’azienda controllata dallo Stato come Snam, il gruppo Arvedi di Cremona e Trieste e infine, ancora, ArcelorMittal: l’esecutivo Conte lavora attorno a questa ipotesi e prepara anche un piano B che prevede l’ingresso della Cina.

Lo Stato dentro ILVA

Il progetto a cui sta lavorando il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli non è semplice perché prevede prima di tutto che ArcelorMittal ci stia, che accetti le immissioni di capitale che arriveranno attraverso Cdp e Snam e riduca gli esuberi drasticamente: a regime, il governo vorrebbe limitarli ai 1800 che sono rimasti nella vecchia amministrazione straordinaria e sono ora in cassa integrazione. Spiega oggi Repubblica:

L’obiettivo di Giuseppe Conte e Stefano Patuanelli è quello dichiarato fin dal primo giorno: ridurre al massimo i licenziamenti, certo. Ma soprattutto, cominciare una riconversione che parta proprio dalla produzione dell’acciaio con una tecnologia più pulita: il preridotto come materiale ferroso di base, sempre più gas al posto del carbone, un forno elettrico che sostituisca il pericoloso, e non ancora a norma, Altoforno 2.

Con l’obiettivo di produrre 8 tonnellate di acciaio all’anno, ma a un costo ambientale molto ridotto rispetto a quello attuale, che porta con sé un’altissima incidenza di tumori e malformazioni neonatali, quartieri assediati dalle polveri inquinanti e la disperazione di chi si trova da quarant’anni dentro un continuo ricatto: salute o lavoro.

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I numeri dell’acciaio (La Repubblica, 18 novembre 2019)

Per il progetto servono 3,2 miliardi di euro in quattro o cinque anni:

Tutti gli altri lavoratori dovrebbero essere mantenuti grazie a Snam (che è chiaramente cruciale per l’approvvigionamento del gas, risorsa più pregiata e costosa del carbone) e soprattutto a Cdp (si sta cercando un modo per evitare che l’intervento della Cassa si configuri come aiuto di Stato e incorra in sanzioni da parte della Commissione europea).

C’è poi il gruppo Arvedi, che il triestino Patuanelli conosce bene e che faceva parte della vecchia cordata interessata all’ex-Ilva, quell’Acciai Italia sconfitta da ArcelorMittal nella gara svolta quando al governo c’erano Paolo Gentiloni premier e Carlo Calenda ministro: l’ingresso della società che gestisce le acciaierie di Cremona e Trieste sarebbe fondamentale per la tecnologia necessaria alla riconversione. Sia per la creazione del forno elettrico che per l’uso del gas, un know how che Mittal non ha e che ha finora considerato troppo costoso.

Se gli indiani si sfilano ci sono i cinesi

Una parte dell’esecutivo però non si fida di ArcelorMittal e pensa che gli indiani possano sfilarsi all’ultimo dall’affare. Oggi al Mise si incontreranno i commissari di Ilva in amministrazione straordinaria e il negoziatore incaricato dal governo, Francesco Caio, presidente Saipem ed ex ad Poste Italiane. Domani, è invece previsto un nuovo importante incontro con l’ad di ArcelorMittal Italia Lucia Morselli. Ed è pronto anche un piano B, come spiega oggi La Stampa:

Il mandato per Caio, a quel punto, sarebbe di ristrutturare l’azienda, senza fare macelleria sociale, e di portare avanti il piano di risanamento ambientale di Taranto. Inevitabile utilizzare risorse pubbliche che prefigurano di fatto a una nazionalizzazione a tempo. Con l’obiettivo finale di trovare un nuovo soggetto privato a cui affidare gli impianti. E qui entrano in gioco i cinesi, che complessivamente realizzano più del 50% della produzione mondiale, contano 6 aziende fra le prime dieci del mondo.

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Dove va l’acciaio di ILVA (Corriere della Sera, 14 novembre 2019)

All’indomani dell’annuncio choc della famiglia Mittal che annunciava 5 mila esuberi all’ex Ilva, con un dimezzamento della capacità produttiva di Taranto (a 4,5 milioni di tonnellate) il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, compagno di partito del titolare del Mise, Stefano Patuanelli, ha attivato un contatto istituzionale per contattare il governo cinese e sondare la disponibilità dei suoi colossi siderurgici a intervenire nell’Ilva. Il riscontro, secondo quanto risulta a La Stampa, sarebbe stato positivo. A una condizione: una significativa presenza dello Stato italiano o di una sua emanazione (Invitalia, ad esempio) nella compagine azionaria.

Il modello è quello di British Steel: il governo britannico ha trovato un accordo con Jingye per investire 1,2 miliardi di sterline nel prossimo decennio in cambio di garanzie da parte dell’esecutivo per 300 milioni di prestiti e sgravi.

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