Fact checking

Lo slut shaming nei confronti della ragazzina napoletana "protagonista" di un video porno

Giovanni Drogo 27/07/2016

Una bambina di undici anni viene filmata mentre fa sesso con alcuni ragazzi. Il video inizia a girare prima su Whatsapp e poi sui social. Ma per il popolo di Facebook non sembra un problema, tutti cercano il video mentre si affannano a ribadire un concetto: lei è una zoccola. E i maschi che si vedono nel video? E i genitori dei protagonisti?

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È già successo e continua a succedere. È successo prima dell’avvento dei social network come Facebook e delle app come Whatsapp o Telegram. È successo nei bagni delle scuole, nelle discoteche, nei parchi pubblici e nelle abitazioni private. Quando succede è un reato, perché è un reato diffondere immagini e video pornografici (spesso pedopornografici) senza il consenso delle dirette interessate. Scrivo al femminile perché le vittime sono sempre ragazze o ragazzine giovanissime.

La bambina è la vittima

Il problema però è che per molti queste ragazze non sono vittime, anzi, sono complici se non vere e proprie esibizioniste, zoccole, puttane. Si fanno filmare e pubblicano tutto su Internet. Nei giorni scorsi è venuto alla luce un episodio risalente a un mese fa: una ragazza di 15 anni è stata violentata nel napoletano. Il fidanzatino -figlio di un’importante famiglia malavitosa – dopo essersi appartato con lei l’ha fatta stuprare da un gruppo di una decina di coetanei, minacciandola di pubblicare i filmati se la ragazza non avesse accettato di subire le violenze. Le minacce e la paura di finire marchiata per sempre come è successo ad altre ragazze i cui video sono stati diffusi via Internet hanno avuto la meglio. Ma in questi giorni un altro caso è esploso a Napoli città. Da un paiio di giorni su Facebook molti ragazzi e molte ragazze sono impegnati a cercare e a diffondere un video (anzi pare una serie di video) che vedono come protagonista una ragazzina di 11 anni. Il caso è stato raccontato anche dallo Youtuber partenopeo Diego Laurenti. A quanto risulta la ragazzina è stata filmata mentre aveva dei rapporti sessuali con alcuni ragazzi, non si sa se minori di quattordici anni o più grandi. I video sarebbero poi stati pubblicati su un profilo Facebook con il nome della ragazza e da lì avrebbero preso a diffondersi sul Web.
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Nessuno sa la storia di questa ragazzina, il contesto sociale in cui è cresciuta. C’è chi dice, ma non è assolutamente verificato, che i genitori della ragazzina fossero a conoscenza di quello che stava succedendo. Altri sostengono che il profilo Facebook con il nome della vittima sia stato creato da coloro che hanno girato e diffuso il video, oppure che qualcuno dei ragazzi presenti ne abbia preso possesso per poter pubblicare i video e metterla in mostra.
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Ma ormai i video hanno iniziato a circolare, e qualcuno condivide anche il numero di cellulare della ragazzina, si sa mai che oltre al possesso e alla diffusione di video pedopornografici uno non voglia anche essere accusato di stalking e molestie. C’è da dire che non sono solo gli utenti maschi a far girare i filmati ma sono anche, direi quasi soprattutto, le coetanee della vittima che evidentemente provano un particolare piacere a fare branco e a poter chiamare “troia” una ragazza della loro età.
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Come già altre volte in passato sembra difficile capire che una ragazzina di 11 anni in questo caso è la vittima. Il pubblico femminile è quello più severo nei commenti con giudizi tipo “se apri le gambe a quell’età” allora sai cosa ti aspetta, e te lo meriti.
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Ragazze e donne che non si accorgono che la vittima è una bambina, ma si preoccupano che quei video possano essere visti da altri bambini che stanno sui social. Il limite di età per l’iscrizione a Facebook è quattordici anni. La vittima invece è abbastanza grande da capire la malizia, del resto se ne sta lì “a gambe aperte con tre maschietti”. La ragazzina però non ha solo la colpa di essere “una puttana” ma anche quella di “intralciare la vita di altre persone”. Poco importa che a undici anni difficilmente qualcuno è “padrone della sua vita”. Poco importa che l’unica vita che qui è messa a rischio, esposta alla gogna del pubblico è proprio quella della vittima. Ti devi aspettare di essere giudicata, non puoi essere compresa.

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Strano concetto di democrazia


Qualcuna prova a difendere la vittima, a mostrare un altro punto di vista sulla vicenda, quello della pietà e dell’umana comprensione che si deve ad una persona fragile che sta venendo triturata da un meccanismo più grande di lei, che sta venendo giudicata da persone che nulla sanno di lei, della sua vita e della sua famiglia. Un video dice molto, ma non dice tutto, la verità del video è parziale e non sappiamo cosa c’è oltre i margini dell’inquadratura. Ma questo non sembra essere un problema per nessuno.
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Lo slut shaming è l’unica forma di commento all’episodio. E chi giudica la vittima lo fa dicendo che “ci vuole rispetto e dignità per il proprio corpo”. Peccato che chi pronuncia questa frase così importante non abbia rispetto per quello altrui. Ed è un peccato che il rispetto per sé stessi non sia un qualcosa di innato ma qualcosa che si impara, con l’educazione in famiglia, a scuola. Ma se la famiglia non c’è e a scuola non è possibile fare educazione sessuale per colpa dei fanatici dell’ideologia gender davvero la colpa è solo tutta della ragazzina? Va ricordato che sotto i quattordici anni per la legge un individuo non può nemmeno essere processato, ma sul tribunale speciale di Facebook valgono altre leggi.
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Altre si offrono di pubblicare tutti i video direttamente sulla propria pagina Facebook
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Mentre altrove ci sono quelle che si offrono di inviarlo via Messenger
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Il doppio standard che fa scomparire le figure maschili del video

Non una parola sui ragazzi che erano presenti nel video. La ragazzina è troia, bocchinara, consapevole di quello che stava accadendo. I maschi (almeno tre pare) invece non sono nulla. Non sono eroi, non sono puttanieri, semplicemente scompaiono dalla narrazione. Non si sanno i loro nomi, i loro cognomi, non vengono pubblicati i loro numeri di telefono e il video gira con il cognome e il nome della vittima come titolo. Come sempre è la figura femminile ad essere identificata e identificabile. I maschi è come se non ci fossero, eppure senza di loro quel video non esisterebbe, non sarebbe stato girato e pubblicato. Anche quando si dà la colpa ai genitori generalmente si preferisce insultare la madre e non il padre.
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Da questa vicenda le figure maschili ne escono pulite. Le ragazze che commentano si sentono migliori della vittima, i ragazzi invece al massimo provano un moto d’invidia nei confronti dei loro coetanei protagonisti della “bravata”. Manca addirittura la percezione che diffondendo il video si sta commettendo un reato, il colpevole è il social network, un’entità astratta che non esiste generando un senso di impunità collettiva. Chi se lo salva e lo condivide non ha colpe. Ma naturalmente non è così anche perché su Facebook chi salva e condivide ha nome e congnome, e l’invito è quello di segnalare tutti gli utenti che condividono i video della minorenne.
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