L’Afghanistan è la Macondo degli occidentali, ci aveva avvisato Gino Strada. Ma nessuno l’ha mai ascoltato

di Fabrizio Delprete

Pubblicato il 2021-08-19

“Questi venti anni proprio questo, in fin dei conti, hanno fatto. Ci hanno anestetizzato e congelato. Combattiamo tutto, ma non combattiamo niente. Trattiamo esseri umani come pezzenti, o come scarto della nostra esistenza. Oggi è Kabul, ieri era Lampedusa.”

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Il cielo era terso, quel giorno, cristallino.

Gli anni ‘90 erano finiti da poco, il millenium bug – una delle prime fake news complottiste della storia – alle spalle, eco leggera di paure molto più reali a venire. Carlo Giuliani era morto da neanche due mesi e il colpo che lo aveva ucciso si era portato via anche la nostra verginità rivoluzionaria, lasciandoci un vuoto incolmabile e cicatrici marchiate a fuoco come nell’infamia della Diaz.

Il cielo era terso, quel giorno, cristallino. Su di noi, come su tutta New York.
Sarei dovuto essere in facoltà, quel pomeriggio.
Invece feci ‘sega’ e andai a giocare a carambola.
Avevo la stecca in mano, quando il tempo si cristallizzò nell’etere del Tg1. Mi cadde di mano, provocando un rumore sordo.

Laika murales gino strada agìfghanistanCadde proprio come quelle persone che vedevo in Tv volare giù, come piume di sangue e ossa, dalle Torri Gemelle.
Se chiudo gli occhi rivedo tutto come se fossi ancora lì, sbarbato sognatore neanche ventenne diventato improvvisamente – e contro la mia volontà – adulto.
Se chiudo gli occhi, ma non serve neanche più farlo.

Il cielo era terso, cristallino, anche qualche giorno fa. Un caldo asfissiante da noi, il fuoco dell’odio a Kabul.
Non serviva essere davanti a un Tg, questa volta, per farsi congelare anima e cuore.
Non serviva partecipare a una liturgia già scritta, per rivivere la Storia.
Eravamo tutti iperconnessi e distanti, ognuno nelle solitudini dei suoi device, a guardare uomini che provavano – ancora una volta – inutilmente a volare.

Sembravano puntini fluttuanti nell’aria.
Erano invece persone. Era la Storia che ci torna in faccia sotto forma di sputo perché non abbiamo studiato.

Perché quello che stiamo (ri)vivendo oggi comincia esattamente in quel volo.
Certo ha radici più profonde e lontane nel tempo, ma inizia esattamente in quel volo.
Venti anni, passati inutilmente. Gioco dell’oca dell’Occidente che torna al via nelle urla degli innocenti.
Venti anni presi, stracciati e buttati nel fuoco dell’indifferenza, della superbia e della violenza di chi pensava di esportare Democrazia neanche fosse al mercato.

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Quell’11 settembre è stata la miccia che ha dato fuoco alle polveri di un’America che cercava, disperatamente, un nemico per rialzarsi a egemonia incontrastata del mondo.
E quel nemico l’America (e tutti noi), in Afghanistan, l’ha trovato. Ma solo dopo averlo con perizia costruito e riempito d’odio. L’Afghanistan allora era un polveriera apparente calma proprio come adesso, regnava il regime dei talebani dal 1996 dopo aver vinto una guerra per bande.
Ma l’intervento americano – e di tutti noi, “occidente evoluto” – trovò nelle Torri Gemelle e in Bin Laden il movente perfetto. Non interessava – ora come allora – liberare le persone dall’egemonia medievale. Manco per niente.

Si voleva un nemico, per sentirsi migliori.
Ci voleva un cattivo, per sentirci cavalleria.
Volevamo un bersaglio, per sentirci Robin Hood di civiltà.

Ci voleva coraggio, per sentirsi nel giusto.

«Di questi tempi si sente spesso discorrere di ‘scontro di civiltà’, e credo che ciò sia vero»
, scrisse Gino Strada nel 2003 in un pezzo per Micromega.

«Non nel senso che due mondi e due culture, quelli occidentali e quelli islamici, siano entrati in rotta di collisione: questo è del tutto falso.

Ad essere in crisi è, piuttosto, l’idea stessa di ‘civiltà’, o meglio la nostra idea di civiltà.
È come se, in una nuova Macondo, non riconoscessimo più i principî, i concetti, perfino le parole. L’occupazione militare di un paese sovrano diventa missione di ‘peace-keeping’, l’assassinio di cinquemila civili afgani sotto le bombe – ero in Afghanistan in quel periodo – si trasforma in ‘guerra al terrorismo’.

Cinquemila esseri umani spariti nel nulla, ‘effetti collaterali’, cavie da laboratorio».

“Effetti collaterali”, per dire sterminio.
“Cavie da laboratorio”, per dire martirio.
“Peace-keeping”, per dire invasione.
“Esportiamo democrazia”, per dire “i nostri interessi”.

A pensarci bene Gino ci aveva già dotato, in quegli anni, dell’alfabeto emotivo e cognitivo per leggere un presente di sopraffazione, violenza e mancanza di lungimiranza.
E noi quell’alfabeto abbiamo pure provato a codificarlo nella realtà, ma eravamo troppo deboli per farlo fino in fondo. Anche perché l’eco delle bombe risuonava più forte e ci assordava, con dolo e certezza.

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Abbiamo passato venti anni, in quel territorio.
Credendo di fare bene. E di farlo per bene.
Abbiamo ammainato bandiere, pianto caduti, sperperato risorse.

Abbiamo protestato in mille forme diverse.

Poi, lentamente, ci siamo assuefatti. Come nella profezia di Gino Strada che richiama i luoghi di Macondo abbiamo disconosciuto fatti, cose e parole.
Ci siamo assuefatti. Assuefatti al peggio, assuefatti all’errore.

Il “mondo evoluto” che pensa di imporre una libertà non voluta e non richiesta, specialmente in quei termini.
E infatti fallisce, miseramente fallisce.

“Gli americani non andranno ancora a combattere e morire in una guerra che l’esercito afghano stesso non vuole combattere per il suo Paese”, ha ammesso Biden dopo la Caporetto delle Caporetto per giustificare la fuga improvvisa e – in fin dei conti – vigliacca.
Quasi come a dire “non siamo stati noi”.
Quasi a disconoscere la paternità di quel barbaro concetto per cui gli altri andrebbero aiutati, volenti o nolenti.

Perché la libertà, proprio come la Democrazia, non siede sullo scaffale delle offerte di un grande magazzino pronta per essere comprata e portata per cena.

La libertà, la Democrazia, sono sentimenti di giustizia di giustizia e di rabbia che nascono e combattono negli oppressi. Non si instillano nelle persone, cambiando semplicemente l’oppressore.
Perché poi, come proprio in questi giorni, quando salta il tappo retto dalla mano “amica” salta in aria anche tutto il resto, lasciando al mondo macerie di devastazione e sangue.

Ci siamo assuefatti, dicevo. Venti anni di gocce nel vaso hanno rotto anche le nostre dighe più intime e forti.
Ci siamo abituati all’indegno, dando ancora più morfina al sonno della ragione che genera mostri.

Siamo bambini impauriti dinanzi all’apocalisse.
Kabul è tornata ad essere “l’impero del male”, quello che prende e ammazza donne, diritti e libertà.
Ci sono migliaia di altri noi che corrono all’aeroporto, si aggrappano alle carlinghe degli aerei e muoiono, in una disperata e mortifera ricerca di salvezza.
E mentre questo accade, noi assuefatti guardiamo, mentre le occlusioni intestinali della storia come Salvini ragliano “qui non li vogliamo”.

Questi venti anni proprio questo, in fin dei conti, hanno fatto.
Ci hanno anestetizzato e congelato. Combattiamo tutto, ma non combattiamo niente. Trattiamo esseri umani come pezzenti, o come scarto della nostra esistenza.
Oggi è Kabul, ieri era Lampedusa.

Antonio Cabras 2021

Il cielo sarà terso, domattina, cristallino. Ne sono sicuro.
Sono le quattro di notte, mentre finisco di scrivere.
Mi guardo, ci guardo, indietro.
Guardo questi venti anni, buttati nel cesso.

E penso che se non eravamo noi, quei puntini nel cielo, è stato solo per caso.
Un caso che non è detto che duri per sempre, anzi.
E intanto noi, noi non abbiamo ancora imparato a volare.

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