Fact checking
La storia della riforma del Titolo V che ci espropria di acqua, luce e gas
Giovanni Drogo 21/11/2016
Cosa cambia con la riforma del Titolo V della Costituzione che dà più potere allo Stato Centrale e ne toglie alle Regioni? È vero che il Paese potrà vendere più facilmente i gioielli di famiglia e che verranno privatizzate acqua luce e gas come dice Grillo?
Beppe Grillo oggi sul blog ha lanciato l’ennesimo allarme su cosa potrebbe succedere in Italia se vincesse il Sì al referendum costituzionale e di conseguenza se la riforma Renzi Boschi venisse approvata. Di appelli come quello del leader del MoVimento 5 Stelle se ne sono letti molti (da entrambi gli schieramenti), e molti se ne leggeranno nei prossimi giorni mano a mano che ci si avvicina alla data fatidica del 4 dicembre. Questa volta tocca alla parte della riforma che va a modificare il Titolo V della Costituzione, ovvero quella parte che regola i rapporti tra Stato ed Enti Locali (Comuni e Regioni) che era già stata modificata dalla riforma costituzionale del 2001.
Il ritorno del centralismo “a difesa dell’unità dello Stato”
Quella del Titolo V della Costituzione è una riforma che va in larga parte a modificare quanto stabilito dalla riforma del 2001 (anche quella riforma costituzionale fu sottoposta a referendum confermativo) che aveva di fatto istituito una forma piuttosto precaria di federalismo concedendo ampie fette di autonomia alle Regioni. Il periodo in fondo era ancora quello in cui la Lega Nord di Umberto Bossi sognava ad occhi aperti l’indipendenza della Padania ed in parte l’intento era quello di disinnescare le pretese secessioniste della Lega. Quindici anni dopo la storia politica italiana è cambiata di nuovo, e dal momento che nemmeno per la Lega di Matteo Salvini la secessione è un obiettivo prioritario il federalismo non è più un aspetto così interessante dal punto di vista politico. In cambio – per così dire – di un accentramento di poteri e competenze le Regioni ottengono il nuovo Senato delle autonomie, dove i rappresentati dei vari Consigli regionali avranno la possibilità di intervenire (seppure in misura molto ridotta) sull’iter legislativo parlamentare e che dovrebbe fungere nelle intenzioni da organo di raccordo tra Governo (e Stato Centrale) ed Enti Locali. I contrari alla riforma lamentano però che manca l’indicazione del cosiddetto mandato imperativo (su modello tedesco) che vincola i senatori a votare in accordo con le necessità dei territori che li esprimono (di fatto i Senatori continuano a rappresentare la Nazione e non una singola Regione). Ma non è solo il contesto storico e politico ad essere mutato dal 2001 ad oggi: l’idea di federalismo concepita da quella riforma costituzionale ha provocato numerosi conflitti di competenze tra Stato e Regioni che sono stati sollevati dinnanzi alla Corte Costituzionale. Ora, c’è chi dice – i sostenitori del Sì – che la riforma farà diminuire i contenziosi tra Stato ed Enti Locali perché stabilirà in modo chiaro chi può fare cosa. I sostenitori del No ribattono invece che i contenziosi andrebbero diminuendo lo stesso in maniera fisiologica poiché in quindici anni ormai la Corte ha già prodotto una cospicua giurisprudenza in materia e che quindi gran parte dei conflitti di competenze sono già stati presi in esame. Viceversa con la nuova riforma si assisterà ad un’impennata dei ricorsi presso la Corte.
Come verrà usata la clausola di supremazia
Il punto del contendere è la legislazione concorrente, ovvero quegli ambiti del governo del territorio dove le competenze di Stato e Regioni si sovrappongono. In teoria la riforma costituzionale 2016 mira ad eliminare la legislazione concorrente creando delle aree di competenza esclusiva dello Stato e altre invece che sono materia esclusiva delle Regioni (ad eccezione però delle Regioni a Statuto Speciale che invece mantengono inalterata la loro quota di autonomia, con tutti i problemi del caso che potrebbero presentarsi in futuro). C’è da rilevare che le nuove materie di competenza regionale potrebbero essere oggetto di contenzioso, quindi si tornerebbe ad una situazione analoga (bisognerà vedere poi quanto) alla attuale per quanto riguarda i conflitti di attribuzione. Viene inoltre introdotta la clausola di supremazia in base alla quale con una legge dello Stato il Governo può richiamare a sé una delle competenze affidate alle Regioni se viene ravvisata l’esistenza di un interesse pubblico generale in quell’ambito, come recita l’articolo 117 riformato: «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Questo è il punto più spinoso della riforma del Titolo V, in primo luogo perché il chiaro intento centralizzatore della riforma non piace a molte Regioni, in secondo luogo perché – dicono i sostenitori del No – una Regione potrebbe ricorrere alla Corte Costituzionale qualora non ravvisasse l’esistenza di un “interesse generale”. Sulla riforma del Titolo V i due schieramenti hanno visioni diametralmente opposte: da un lato c’è chi sostiene che va a correggere alcuni effetti nefasti del federalismo istituito nel 2001, dall’altra invece chi è convinto che questo accentramento di potere comporti non solo una cessione di competenze da parte delle Regioni ma di fatto anche un esproprio di altro tipo.
Tutti sono d’accordo su una cosa: la riforma toglierà potere alle Regioni e ne darà di più allo Stato Centrale (il che non essendo l’Italia una Repubblica Federale non è proprio un grande scandalo, costituzionalmente parlando). Le materie di competenza esclusiva dello Stato sono infatti ventuno – tra cui la “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia”, le “infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto”, i “porti e aeroporti civili”, la “tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici”, l’“ambiente ed eco-sistema” – e di competenza delle Regioni ne rimangono invece soltanto otto. Ma è proprio sulla clausola di supremazia che si innesta il discorso di Grillo riassunto in questo post del deputato Danilo Toninelli: lo Stato ora potrà svendere gli asset statali, privatizzando acqua luce e gas.
Si tratta però di un’ipotesi formulata nel 2013 dall’allora Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni che fu poi smentito (o meglio “rettificato” dal Tesoro). Anche su questa possibilità però non è dato di sapere in che modo la riforma aiuterà le privatizzazioni (che in passato sono già state fatte) o la vendita di alcune aziende statali (come è stato fatto già in passato). Si sa che la Renzi-Boschi prevede che il Senato – sempre per la storia che rappresenta le Regioni – ha la possibilità di intervenire (in maniera assai debole) su alcune questioni e soprattutto non è dato di sapere se la clausola di supremazia verrà applicata per risolvere contenziosi “eccezionali” oppure semplicemente per ribadire l’autorità dello Stato Centrale sulle Regione. Immagino che sarà compito di ogni Governo (ed eventualmente della Corte Costituzionale) decidere entro quali limiti muoversi. Dire che automaticamente il patrimonio statale verrebbe svenduto se passasse la riforma non ha però molto senso, almeno dal punto di vista economico (ovvero di chi vende). E del resto lo dice lo stesso Grillo sul blog
È chiaro che le utilities sono già ora disciplinate con criteri comunitari, che vanno tutti in direzione di una “privatizzazione”, contro le gestioni “in house”, mentre la regolazione delle tariffe è gestita dalle authority. Ma coi poteri assicurati in tali materie allo Stato centrale dalla riforma, il Governo può agire sui criteri di regolazione (assetti societari, legislazione tariffaria) con uno spazio più agevole per procedimenti legislativi e amministrativi.
Ovvero acqua, luce e gas sono già regolamentate secondo criteri che esulano dalle competenze di Regioni e Comuni, secondo alcune direttive emanate dalla Commissione Europea. L’allarme specifico relativo alla riforma sembra essere ridimensionato dallo stesso leader del MoVimento, che dopo il titolo ad effetto corregge il tiro. Sullo sfondo rimangono ovviamente gli interessi privati dei vari fondi d’investimento, ma se la clausola di supremazia (dato per scontato che nessuno sa come verrà applicata nel concreto) è necessaria per la tutela “dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” bisognerà dimostrare la sussistenza di questo interesse. Inoltre è alquanto difficile far passare una cessione di un ente statale (vengono citate ENI e Finmeccanica che non risultano essere di competenza regionale nemmeno ora) come conseguenza della riforma costituzionale del Titolo V.