La lunga notte honduregna tra narcopolitica e fallimento della lotta alla droga

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2020-11-11

Da più di un decennio, ormai, il nome di Juan Carlos Bonilla Valladares circola negli ambienti giornalistici honduregni e statunitensi per essere questi un poliziotto, che opera ben oltre i limiti consentiti dalla legge

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Il 23 ottobre di quest’anno su Insight Crime è apparso un articolo a firma di Parker Asmann dal titolo Policías, ministros y generales corruptos de América Latina. Nella lunga carrellata di personaggi di spicco della società latino-americana, coinvolti in scandali di corruzione o nel favoreggiamento delle redditizie rotte del narcotraffico, il nome di Juan Carlos Bonilla Valladares, più che chiacchierato membro dei corpi di polizia honduregni, assumeva una posizione cruciale. L’Honduras, malgrado l’importanza geopolitica nella discutibile lotta alla droga portata avanti da decenni dalle varie amministrazioni USA, appare ben poco negli approfondimenti di politica estera, anche laddove si parli di narcotraffico con riferimento all’America Centrale e al Sudamerica. Parimenti, trattasi di uno snodo di importanza fondamentale al fine di comprendere, non solo e non tanto le dinamiche interne al submondo narcos, quanto, assai maggiormente, gli ambigui e nefasti addentellati del contrasto al traffico di sostanze stupefacenti con riferimento al Centro America come pure i suoi ultimi beneficiari a livello locale.

La lunga notte honduregna tra narcopolitica e fallimento della lotta alla droga

Da più di un decennio, ormai, il nome di Juan Carlos Bonilla Valladares circola negli ambienti giornalistici honduregni e statunitensi per essere questi un poliziotto, che opera ben oltre i limiti consentiti dalla legge. Ciononostante, la sua carriera non sembra averne risentito, se non recentemente, per essere finito nell’occhio del ciclone a causa di una gigantesca rete di narcotraffico, che, a partire dall’Honduras, avrebbe attivamente coordinato. Accuse da lui recisamente respinte e che difficilmente condurranno ad un mandato di estradizione e ad un processo davanti ad una corte di giustizia statunitense.

La carriera di “El Tigre”, del resto, è stata tutta costellata di ombre, più o meno grandi, che il diretto interessato ha sempre trovato il modo di ricacciare lontano da sé. Nominato direttore della polizia honduregna nel 2012, fu destituito dall’incarico nel 2013. Come descritto da Insight Crime nell’articolo del 29 maggio 2012 a firma di Hannah Stone, Honduras’ New Top Cop Comes with Dark Past, Bonilla si era imposto all’attenzione mediatica dentro e fuori l’Honduras per la sua ferma volontà di ripulire i corrotti corpi di polizia del Paese. A tal proposito, in The long Honduran Night, Dana Frank osservava: “Il 21 maggio 2012 il governo honduregno, come pezzo forte del suo impegno per la pulizia della polizia, ha annunciato la nomina di un nuovo Direttore Nazionale della Polizia, Juan Carlos Bonilla, conosciuto come “El Tigre” (La Tigre). L’ambasciatrice statunitense Lisa Kubiske gli ha dato il benvenuto in un tweet” . Uno schema consolidato delle sempre più traballanti democrazie latinoamericane, questo, dove, per il tramite di una assai più presunta che reale lotta alla corruzione, vista come radice di tutti i mali, si finisce per instaurare un sempre più brutale Stato di eccezione, impersonato volta a volta da un membro delle forze dell’ordine o, volendo essere più raffinati nelle forme, da uno del potere giudiziario, come accaduto in Brasile con la Lava Jato di Sérgio Moro. In entrambi i casi, ciò che rimane invariato è il coefficiente di eversione sotteso a certe dinamiche, le quali finiscono per produrre effetti ben peggiori di quelli che, almeno sulla carta, vorrebbero arginare.
Quando Bonilla Valladares arriva ad occupare il grado più alto all’interno della polizia honduregna, dichiara prima di tutto di volere ripulire l’istituzione, attuando una lotta senza quartiere nei confronti della corruzione. Un intento, per la realizzazione del quale poteva vantare un certo credito, per la verità, risalendo al 2010 un rapporto assai dettagliato nel quale accusava due suoi colleghi di avere mantenuto rapporti con il crimine organizzato, corredando tale rapporto con le armi e il denaro dei gruppi criminali coinvolti. Eppure, nonostante l’apparente afflato legalista che sembrerebbe animarlo, le ombre su Bonilla non mancano. Al 2002 risale la pesante accusa di far parte di uno squadrone della morte, il quale “vigilava” sulle strade honduregne giustiziando sospetti criminali, spesso anche minorenni. Accusato di omicidio, nel 2004 era stato prosciolto da ogni accusa. Sembrerebbe uno di quei casi di sospetti e accuse infondate contro un ligio rappresentante delle forze dell’ordine in un contesto di corruzione dilagante, se non fosse che il procuratore incaricato del caso si dimise a metà del processo. Da parte sua Bonilla, intervistato dal giornale El Faro, non aveva fatto molto per dissipare i dubbi, dichiarando di amare il proprio Paese e di avere fatto delle non meglio precisate cose per difenderlo. Sia come sia, un documento risalente sempre al 2002, redatto dalla sezione di assunti interni della polizia honduregna, ricollegava Bonilla direttamente ad almeno tre casi di omicidi tra il 1998 e il 2002, cui si aggiungevano altri undici casi nel quale aveva avuto una partecipazione indiretta.

Ad aggiungere ulteriori ombre non solo su Bonilla, ma sulla tacita complicità di Washington nella sua, fino a non molto tempo fa, inarrestabile ascesa, ci pensa ancora una volta l’eccellente saggio di Dana Frank, laddove rivela che “una legge statunitense del 1998 nota come Leahy Law specifica che, qualora il governo statunitense riceva prove credibili che un individuo o un’unità finanziata dagli USA abbia commesso gravi violazioni dei diritti umani senza essere portata davanti alla giustizia, deve sospendere immediatamente ogni tipo di aiuto e di cooperazione con quell’individuo o unità. Il 22 maggio, il giorno dopo la nomina di Bonilla, un giornalista dell’AP durante il briefing quotidiano del Dipartimento di Stato rivolse al portavoce Victoria Nuland una domanda sulle forze dell’ordine di Leahy Law riguardo agli omicidi della DEA di Ahuas. Nuland rispose di non essere a conoscenza della Leahy Law applicata in Honduras. Con questa risposta, il Dipartimento di Stato ignorò le prove contro Bonilla, oltre alle vaste e documentate prove di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza honduregne in centinaia di altri casi”. Viene anche da chiedersi, conclude la docente di Santa Cruz, se “l’ambasciatore statunitense Kubiske fosse a conoscenza delle prove contro Bonilla nel momento in cui ha twittato per accogliere la sua nomina”.
All’intricato filo degli eventi, che si dipana sino ai giorni nostri, occorre aggiungere altri elementi tutt’altro che secondari, già menzionati in editoriali tanto dal sito specializzato Insight Crime come pure da parte della Associated Press, che in più di un’occasione hanno messo in evidenza come la carriera di vertice all’interno della polizia honduregna da parte di Bonilla non sarebbe stata possibile senza il decisivo avallo da parte delle amministrazioni di Washington. Nel 2012, poco prima che Bonilla fosse nominato a capo della polizia, l’allora presidente Lobo si era recato, in gran segreto, in visita negli USA, poco dopo avere chiesto aiuti supplementari per combattere la criminalità. Gli aiuti arrivarono come pure arrivò, puntuale, la nomina di Bonilla. Volendo un poco speculare, facendo un parallelo col Brasile a partire dal comune elemento della ‘lotta alla corruzione’, si potrebbe far notare come nei primi mesi del 2014, dopo avere precedentemente installato uffici dell’FBI su suolo brasiliano e debitamente formato, su suolo americano stavolta, la manodopera giudiziaria atta allo scopo (la task-force di Dallagnol agli ordini di Moro), prese avvio l’operazione Lava Jato, propedeutica al golpe bianco nei confronti di Dilma Rousseff, alla surreale condanna dell’ex-presidente Lula e – da ultimo ma non per ultimo – all’elezione dell’attuale presidente Jair Bolsonaro.

Quando la Associated Press denunciò il possibile do ut des dietro la nomina di Bonilla, da Washington arrivò una risposta, che, in realtà, tutto era tranne che una risposta. Gli Stati Uniti si difendevano dalle accuse di avere spinto alla nomina di un poliziotto dal passato e dal presente oscuro, dichiarando che i 16.3 milioni di dollari elargiti sarebbero stati destinati a unità di polizia specificamente esaminate e che i funzionari statunitensi inviati in Honduras non avrebbero lavorato direttamente con Bonilla, né con alcuno dei suoi uomini. Evidentemente un simile proposito fu disatteso, se, come riportato in The long Honduran Night, il 23 giugno di quello stesso 2012, nel corso di un operativo antidroga, le forze di polizia honduregne e un membro della DEA FAST uccisero un sospetto disarmato, presumibilmente dopo che questi si era avvicinato ad un pistola. Copione che si ripeterà il 3 luglio dello stesso anno, quando, in seguito allo schianto di un aereo carico di droga vicino a Catamacas (Honduras), le autorità statunitensi e quelle honduregne presero in custodia uno dei due piloti. Il secondo pilota, che aveva tentato di rientrare all’interno del velivolo, era morto a causa delle ferite riportate nello scontro a fuoco creatosi con gli uomini della US FAST, che gli avevano sparato due colpi. Ben cinque anni dopo, l’indagine degli ispettori generali concluse che Bonilla Valladares aveva ordinato di piazzare una pistola tra le prove. La DEA, sebbene a conoscenza del fatto, aveva preferito insabbiare tutto.

L’intricata vicenda di El Tigre si complicava ulteriormente diciassette mesi dopo la sua nomina, quando il presidente, per giunta uscente, Porfirio Lobo annunciava la destituzione dalla carica di capo della polizia di Bonilla e la nomina di Ramón Antonio Sabillón, sino ad allora ispettore generale della polizia nazionale. Siamo al mese di ottobre del 2013 e all’ormai prossimo insediamento del nuovo presidente eletto: Juan Orlando Hernández. All’epoca, il Miami Herald suggerì la non peregrina ipotesi che dietro la destituzione di Bonilla vi fosse proprio la mano dello stesso Hernández. Voci, sospetti e intrighi, che sembrano essere una costante nella tortuosa carriera del nostro superpoliziotto. Quale che possa essere stata la ragione dell’allontanamento di Bonilla dal vertice delle forze di polizia honduregne, vale la pena ricordare che nel dicembre del 2013 gli fu affidata una mansione tutt’altro che secondaria come l’addestramento, a Bogotá, coadiuvato dai colleghi colombiani, delle forze di polizia honduregne.
Elemento, questo, cui può aggiungersi la circostanza, anch’essa tutt’altro che secondaria, relativa alla non interruzione dei rapporti tra l’ormai deposto Bonilla e la famiglia presidenziale. Tutto al contrario. Stando, infatti, al già citato articolo di Parker Asmann, i procuratori statunitensi nell’aprile del 2020 hanno accusato Bonilla di utilizzare gli alti ruoli ricoperti nella polizia honduregna tra il 2003 e il 2018 per “violare la legge e svolgere un ruolo chiave all’interno di una violenta rete di narcotraffico internazionale”. Il nostro superpoliziotto, da un lato si mostrava inflessibile nella sua crociata contro la corruzione, mentre dall’altro avrebbe coordinato e protetto gli ingenti carichi di cocaina per conto di Tony Hernández, congressista e fratello del presidente in carica Juan Orlando Hernández, già condannato per narcotraffico nel mese di ottobre del 2019. Nonostante la condanna sia stata emessa nei confronti di Tony Hernández, appare difficile pensare che un qualche ruolo attivo nel coinvolgimento di Bonilla non sia stato operato, in particolare all’inizio, dallo stesso presidente Hernández. È questa anche la tesi portata avanti dai procuratori statunitensi, i quali ritengono che Bonilla Valladares era una sorta di factotum alle dipendenze della famiglia Hernández, tanto per quanto concerne i carichi di cocaina diretti verso gli USA come per lavori più “specifici”, quali omicidi su commissione.

Da parte sua, l’ex superpoliziotto respinge ogni addebito, consapevole che estradarlo negli Stati Uniti probabilmente non conviene a nessuno, né dal lato honduregno, ma neppure da quello statunitense. Per Washington, come abbiamo visto, le ambiguità, volendo usare un eufemismo, letteralmente abbondano in questa torbida vicenda. Dal blindatissimo viaggio dell’allora presidente Porfirio Lobo nel 2012 sino alla storia più recente, con la condanna del fratello dell’attuale presidente Juan Orlando Hernández, quest’ultimo, però, tirato in ballo dai vari accusatori di Tony Hernández – come dettagliatamente riportato nell’articolo di Parker Asmann del 18 ottobre del 2019, dal titolo ¿Qué significa la condena de Tony Hernández para la narcopolítica en Honduras? – si ha sempre l’impressione che le forze di polizia statunitensi impegnate nella ormai cronica lotta alla droga stiano giocando una partita nella quale, più che combattere il narcotraffico, sembrerebbero volerlo amministrare.

Chi potrebbe mai criticare il fatto che oggi l’Honduras è a tutti gli effetti un Narcostato, la cui narcopolitica si estende dalle alte sfere imprenditoriali fino ai centri politici di Tegucigalpa, presidente compreso? Tenendo fermo questo elemento, cui la condanna di Tony Hernández fa da corollario, sulla base di quale analisi politica gli Stati Uniti confermano la loro fiducia, in materia di sicurezza, all’attuale presidente in carica? Ancora, al 16 ottobre 2019 risale la pubblicazione di una dichiarazione alla stampa del Segretario di Stato Michael R. Pompeo, il quale descriveva l’assistenza mirata all’estero degli Stati Uniti per El Salvador, Guatemala e Honduras con queste parole: “Al fine di consentire ulteriori progressi negli sforzi di questi paesi, riprenderanno i finanziamenti mirati del Dipartimento di Stato e dell’USAID. Tali finanziamenti sosterranno i programmi che stanno facendo progredire i nostri sforzi congiunti per mitigare l’immigrazione illegale da El Salvador, Guatemala e Honduras. Questi programmi integreranno i nostri piani di sicurezza congiunti per ogni governo, aumenteranno gli sforzi del settore privato per creare opportunità economiche, promuoveranno lo Stato di diritto, il rafforzamento delle istituzioni e il buon governo e aiuteranno questi Paesi a sviluppare le loro capacità di implementare gli accordi recentemente firmati per costruire sistemi di asilo locali più forti”. In altre parole, Pompeo intendeva promuovere lo Stato di diritto, mentre il fratello del presidente in carica si trovava sotto processo negli stessi Stati Uniti con l’accusa di avere organizzato una gigantesca rete di narcotraffico, che collegava Honduras e USA. Rete di narcotraffico, che coinvolgeva a pieno titolo lo stesso presidente honduregno, che, tutto al contrario, avrebbe dovuto partecipare a quella promozione dello Stato di diritto menzionato dal Segretario di Stato.

Vedremo cosa accadrà con la nuova amministrazione Biden, pur tuttavia, ad oggi, dalle parti di Washington sembrano avere uno strano concetto di Stato di diritto, almeno con riferimento alla sua declinazione in quella che Gilberto Freyre, a ragione, definì l’America iberica.

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