Opinioni

John Cochrane e i problemi delle banche europee (e italiane)

di John H. Cochrane

Pubblicato il 2018-11-30

John Cochrane, economista , specializzato in economia finanziaria e macroeconomia, Senior Fellow dell’Hoover Institution presso la Stanford University, ci ha autorizzato a tradurre e pubblicare l’articolo Europe’s Banks pubblicato originariamente sul suo blog The Grumpy Economist. La traduzione è a cura di Fabio Scacciavillani. Durante una mia recente visita in Europa ho avuto modo di intavolare una serie […]

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John Cochrane, economista , specializzato in economia finanziaria e macroeconomia, Senior Fellow dell’Hoover Institution presso la Stanford University, ci ha autorizzato a tradurre e pubblicare l’articolo Europe’s Banks pubblicato originariamente sul suo blog The Grumpy Economist. La traduzione è a cura di Fabio Scacciavillani.

Durante una mia recente visita in Europa ho avuto modo di intavolare una serie di interessanti conversazioni con banchieri ed economisti. Ho notato un netto contrasto tra le complesse esternazioni condensate in presentazioni e documenti formali focalizzati soprattutto sulle questioni regolamentari e le discussioni informali a pranzo dove si rifletteva l’esperienza concreta sugli effetti reali delle regolamentazione bancaria. I miei interlocutori esprimevano una malcelata frustrazione. Non ho avuto modo di verificare rigorosamente quanto mi è stato detto e i ricordi sono un po’ annebbiati dal fuso orario, tuttavia si tratta di aspetti oltremodo interessanti che vale la pena condividere.

In primo luogo i parametri di rischio e i pesi attribuiti ai vari attivi patrimoniali sono estremamente complessi e pochi li comprendono sul serio. Idem per la regolamentazione sui vari “strati” di buffer sul capitale e in che modo vadano calcolati ed applicati.  In generale i pesi attribuiti alle varie forme di rischio sono sospettosamente bassi. Per di più le grandi banche per calcolare il rischio a cui sono sottoposti gli attivi possono utilizzare i propri modelli, calibrati su soli 10 anni di dati. Di conseguenza le analisi econometriche si basano su dati relativi a 10 anni di crescita stabile e quindi calcolano una probabilità di default estremamente bassa. In pratica un banchiere può asserire sulla base di quei modelli che i suoi investimenti sono quasi privi di rischio. Inoltre gli ispettori che analizzano il livello micro, cioè le specifiche esposizioni di ciascuna singola banca sono inclini a gettare uno sguardo benevolo sul “rischio sistemico” se la banca dimostra di aver compiuto adeguati sforzi sul fronte “macroprudenziale”. In pratica le banche chiedono più flessibilità al regolatore adducendo l’impossibilità pratica di poter rispettare le miriadi di regole macroprudenziali e i regolatori di solito lasciano dei margini di flessibilità.

In questi anni i regolatori sono stati impegnati più a scrivere rapporti su aspetti particolari, ma nel frattempo, l’elefante è rimasto nella stanza anche se tutti fanno finta di ignorarlo: l’eventualità che l’Italia vada in bancarotta o abbandoni l’euro. Le banche italiane sono ancora imbottite di titoli di stato italiani. A questo riguardo ho imparato una serie di parole nuove: ad esempio “doom loop”. Significa che se il governo fallisce, le banche seguono a ruota, insieme ad alcune piccole banche straniere col portafoglio pieno di obbligazioni italiane. Altre parole nuove sono “moral suasion” per indicare i governi che “incoraggiano” le banche a comprare i propri titoli pubblici. Immagino che il Padrino avesse parole più colorite per esercitare analoghe pressioni. D’altra parte, le banche italiane sono felici per il momento, visto che fino a quando lo stato italiano non finisce in bancarotta, si godono un bell’arbitraggio da alti tassi di interesse. E per di più al debito pubblico a fini prudenziali è ancora attribuito un coefficiente di rischio basso o addirittura nullo.

Insomma nel caso non sia ovvio, ecco il problema. Un default sovrano è già di per sé un evento devastante. Ma se le banche sono imbottite di debito pubblico, un default sovrano distrugge il sistema bancario. I depositanti rimangono in braghe di tela e le banche vengono chiuse. Una calamità diventa una catastrofe. E un’economia con banche in fallimento porterà minori entrate fiscali e fallimenti di imprese. Il debito pubblico in un’unione monetaria senza unione bancaria è un investimento pessimo, in quanto sono i governi nazionali attualmente a fornire assicurazioni sui depositi (esplicite o implicite) . Tutto questo appare ovvio a chiunque esamini la situazione, e suscita un’enorme  preoccupazione in merito alle “pressioni politiche”. Dopo 10 anni di crisi l’Europa non ha avuto il coraggio di affermare che i debiti sovrani sono rischiosi. Comprensibilmente. Formalmente l’Ue è un club di soci uguali, quindi è terribilmente imbarazzante asserire che alcuni debiti sovrani siano migliori di altri. L’elefante è andato in giro per la stanza per 10 anni durante i quali è scoppiata una crisi in Grecia che avrebbe dovuto suscitare un minimo di attenzione!

sofferenze grandi banche

Alcuni propendono per un’unione bancaria completa, scalzando la regolamentazione delle banche locali e permettendo alle grandi banche transnazionali di operare pienamente in tutta l’eurozona rompendo il doom loop. Altri invocano la piena unione fiscale che completi l’unione monetaria. Il modello attuale, incentrato sulla pressione dei partner europei sui singoli governi per evitare di aumentare il debito pubblico, e quindi evitare alla radice il rischio di default sovrano, ha chiaramente fallito. A mio avviso, l’unione monetaria senza unione fiscale funziona bene, finché capiamo tutti che un governo può andare in default, e il suo debito vada trattato nei bilanci delle banche alla stregua del debito aziendale che è rischioso (e talvolta spazzatura). E, naturalmente, se i requisiti di capitale fossero raddoppiati, triplicati o più, in modo che le banche possano sopravvivere ad un default sovrano, il problema si risolverebbe da solo. Dal mio punto di vista basterebbe rimuovere il debito sovrano dalle banche per risolvere in buona parte il problema. In sostanza il debito pubblico non rimborsabile dovrebbe essere detenuto tramite fondi di investimento che pubblichi il valore giornaliero degli asset e non tramite il conto in banca.

Inoltre, c’è un grande controversia secondo cui la banca centrale italiana deve molto denaro alla Germania. Gli italiani vedono arrivare la tempesta e quindi è in atto una fuga di capitali. Quando un italiano scrive un assegno da una banca italiana per comprare un appartamento in Germania, mette in moto un flusso di denaro dalla banca italiana alla banca centrale italiana, alla banca centrale tedesca, alla banca tedesca. Però la banca centrale italiana essenzialmente fa una promessa di pagare non un effettivo pagamento. L’Italia sta sostanzialmente espandendo il debito pubblico in questo modo tramite il sistema TARGET 2. Onestamente il punto non è facile da comprendere né lo comprende la maggior parte delle persone con cui ho parlato. C’è un ampio disaccordo sul fatto che TARGET 2 sia un’altra forma di debito o solo un problema tecnico. Rimane il fatto che i partecipanti ad una conferenza di regolamentazione finanziaria sono consci che si tratta di un grosso problema ma nessuno si senta in grado di esprimersi sulle implicazioni pratiche effettive.

Se si considera il quadro offerto dalle conversazioni a pranzo o durante la pausa caffè, i rapporti scritti dai regolatori assumono un’aura surreale. L’illusione della competenza tecnocratica è sempre presente in discussioni sulle normative bancarie, ma è ancora più marcata in un tale guazzabuglio. Guardate ad esempio il sito web del Finanical Stability Board e le questioni che ritiene importanti. Ad esempio si prenda il riassunto delle priorità dell’FSB per la presidenza argentina del G20. Inizia abbastanza bene: “Monitoraggio vigile per identificare, valutare e affrontare i rischi nuovi ed emergenti”. Ma qual è il rischio numero uno? In onore della presidenza argentina, delle conversazoni a pranzo sull’Italia e dei dubbi su chi deve cosa a chi in Cina, verrebbe da pensare che in cima alle preoccupazioni vi sia il “rischio sovrano”. Macché! Il problema numero 1 sono i Crypto-assets. Ecco cosa spiega il rapporto: “L’FSB identificherà le metriche per il monitoraggio più stringente dei rischi alla stabilità finanziaria posti dai cripto-asset e di aggiornare il G20 secondo procedure appropriate”. Pertanto “Il completamento ordinato delle attuali priorità della riforma finanziaria del G20” impone che

“Nel corso dell’anno gli obiettivi del G20 includeranno le seguenti aree: il corrispondente piano d’azione bancario, incluso il miglioramento dell’accesso dei fornitori di rimesse ai servizi bancari; un kit di strumenti per aziende e supervisori sul quadro di governance volto a ridurre i comportamenti deteriori nel settore finanziario; limiti alla leva per i fondi di investimento in modo da promuovere la solidità finanziaria con strumenti di mercato; linee guida sulle risorse finanziarie disponibili per il supporto alla risoluzione della controparte centrale (CCP) in modo da fornire CCP resilienti e risolvibili; un lessico sulla cyber security per sostenere la coerenza nel lavoro dell’FSB, organismi di normazione, autorità e agenti di mercato; e la Task Force guidata dal settore privato sulla Relazione in materia di Informativa Finanziaria sull’attuazione volontaria e l’adozione più ampia delle buone pratiche in materia di cambiamento climatico”.

Il rischio sovrano non è menzionato una sola volta in questo documento. E non l’ho trovato da nessuna parte sul sito web di FSB. A leggere tra le righe, c’è una preziosa resistenza a questa tendenza a produrre aria fritta che cambia ad ogni presidenza:

“Fare perno sulla valutazione delle politiche per garantire che il programma di riforma sia efficiente, coerente e efficace. L’FSB sta sempre più spostandosi dalla progettazione di nuove iniziative politiche verso l’implementazione dinamica e la valutazione rigorosa degli effetti delle riforme concordate dal G20”.

Foto di copertina da qui

Leggi sull’argomento: Le banche italiane e quei 105 miliardi da restituire alla BCE

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