Il conflitto d’interessi al tempo del Salvimaio

di Lucio Di Gaetano

Pubblicato il 2018-10-19

Tramontato Berlusconi, il “Conflitto d’interessi” ce lo siamo dimenticato, lo abbiamo rimosso. Eppure è ancora lì: condiziona la vita repubblicana, condiziona le scelte del Governo del Paese, e nel tempo si è accresciuto con la velocità e la spietatezza di un tumore maligno, raggiungendo dimensioni che 20 anni fa non avremmo potuto nemmeno immaginare. Sì, perché …

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Tramontato Berlusconi, il “Conflitto d’interessi” ce lo siamo dimenticato, lo abbiamo rimosso. Eppure è ancora lì: condiziona la vita repubblicana, condiziona le scelte del Governo del Paese, e nel tempo si è accresciuto con la velocità e la spietatezza di un tumore maligno, raggiungendo dimensioni che 20 anni fa non avremmo potuto nemmeno immaginare. Sì, perché se il conflitto con il quale conviveva Berlusconi riguardava una sola azienda (Mediaset), in uno scenario oligopolistico caratterizzato dalla salutare compresenza di concorrenti di pari (Gruppo Editoriale Repubblica-Espresso) o soverchia dimensione (Rai e Sky), il conflitto d’interessi dei nostri giorni è di natura differente e assai più pervasiva, fondendosi con una comunicazione politica ormai fatta di instant messages nelle mani di pochi gruppi di potere, ben meno trasparenti dei comitati di redazione dei tempi di Fede e Mentana.

Ma andiamo per gradi, torniamo per un attimo agli anni ’90, quando Berlusconi, per porre rimedio a una situazione finanziaria compromessa e alla morte imprevista dei propri padrini politici, decise di affrontare la vita pubblica in prima persona, al solo fine di preservare la raccolta pubblicitaria delle tre reti di famiglia e impedire che la regolazione di settore lo distruggesse tornando agli anni del monopolio Rai. Una sola azienda, un solo interesse, un solo conflitto: e ben più nobile di quello attuale, se ci pensate, visto che tutto sommato la protezione di Mediaset portava con sé la tutela di migliaia di lavoratori e l’apertura di un mercato che, per quanto oligopolistico, era tutto sommato preferibile e migliore rispetto alla precedente conformazione del sistema dei media, tutto nelle mani dei partiti. Non c’era da vantarsene, ma il quadro era chiaro, gli attori conosciuti, l’elettorato sufficientemente consapevole e informato sulle variabili in gioco.

silvio berlusconi marcello dell'utri

La Grande Recessione e il progresso tecnologico cancellano questo scenario nel giro di 4 anni: tra 2007 e 2011 l’elettorato realizza che la politica non è in grado di rispondere in maniera efficace ai problemi, e quella stessa politica rifiuta (in maniera squallidamente prevedibile) di dire la verità sulle cause del fallimento e cioè che triplicare la spesa pubblica e quintuplicare la pressione fiscale in un trentennio non è servito a risolvere i problemi di disuguaglianza e ritardo sociale all’interno del Paese, per di più aggravando le condizioni di competitività con l’estero e ficcandoci in una trappola dalla quale sarà impossibile uscire senza sacrifici. La totalità degli uomini pubblici e la quasi totalità degli intellettuali ha preferito una via più comoda e, soprattutto, auto-assolutoria, fabbricando una serie corposa quanto ridicola di alibi e nemici immaginari (L’Europa, l’Euro, la Cina, la Globalizzazione, i Mercati, l’Austerità). Tutto pur di non dire la verità, dando così la stura ai populisti, il cui lavoro propagandistico è consistito in una banale e comodissima reiterazione delle precedenti menzogne: operata per di più con la superiore credibilità di chi non si è sporcato le mani in precedenza e con mezzi di comunicazione non convenzionali (Facebook, Twitter et similia) grazie ai quali “i nuovi” sono riusciti ad appropriarsi di una notorietà che fino ai primi anni 2000 sarebbe stata una chimera.

Max e Moritz salvini di maio
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E torniamo finalmente al punto di partenza: il conflitto di interessi. Perché se il conflitto di Berlusconi era evidente, chiaro, scolpito nella pietra, quello dei populisti è assai più sfumato e pericoloso, essendo un conflitto con sé stessi e con il proprio curriculum. Forza Italia nacque e visse per difendere un impero mediatico e finanziario la cui stabilità era assai più importante dello stesso Berlusconi e nel 2011 l’accesso ai mercati finanziari per le aziende del gruppo (con forti interessi come noto anche nel comparto bancario, con Banca Mediolanum e Mediobanca) prevalse sulla carriera politica del suo proprietario; nessuno, nemmeno per un minuto pensò di immolare miliardi di Euro alla hybris di Silvio o dei suoi accoliti. Salvini e Di Maio, invece, cosa rischiano?

Senza lo spread, l’immigrazione, la recessione e Facebook il primo sarebbe ancora consigliere comunale a Milano, continuerebbe a “pulirsi il culo col tricolore” e a rifiutarsi di stringere la mano ai Presidenti della Repubblica pur di finire sull’edizione locale del Corriere; il secondo lavorerebbe in un call center, dovendo per di più affrontare gli sberleffi dei clienti Vodafone allergici all’uso disinvolto del congiuntivo. Ecco, questo è il punto. Salvini e Di Maio, come i professorini di provincia catapultati in Parlamento, come gli ottuagenari tirati via dalla bocciofila e piazzati a capo di un ministero, come il 90% dei loro compagni di ventura in Parlamento, al contrario di noi, non hanno nulla da perdere da un collasso del Paese: perché è meglio essere padroni di un Paese fallito che camerieri in un Paese sano.

Leggi sull’argomento: Lo spread oltre 330 punti: cosa succede

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