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Spieghiamo a Giulio Gallera gli errori di Regione Lombardia ad Alzano Lombardo

Alessandro D'Amato 06/04/2020

Ieri l’assessore al Welfare da Giletti ha negato responsabilità sulla zona rossa e non ha voluto commentare il caso del medico sospeso perché colpevole di autorizzare l’uso delle mascherine chirurgiche al personale. Ricordiamo come sono andate le cose ad Alzano Lombardo e in tutta la Val Seriana agli smemorati di Regione Lombardia

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Ieri l’assessore al Welfare Giulio Gallera è intervenuto a Non è l’Arena da Massimo Giletti e ha difeso la gestione ad Alzano Lombardo da parte della Regione Lombardia. “Perché Bergamini (in realtà si chiama Bergamaschini, ndr), un medico, che ha denunciato la situazione grave all’interno di un’ospedale, è stato cacciato e sospeso?”, gli ha chiesto il conduttore. “Le sto dicendo delle cose inconfutabili, Codogno è arrivato due giorni prima di Alzano, ma che cosa doveva insegnare?”, risponde Gallera. Che poi aggiunge: “La zona rossa l’abbiamo chiesta e non è stata attuata”.

Spieghiamo a Giulio Gallera gli errori di Regione Lombardia ad Alzano Lombardo

Magari l’assessore è stanco e un po’ confuso. Ricapitoliamo quindi quanto è successo ad Alzano Lombardo, comune in provincia di Bergamo che, secondo i dati dell’ultimo censimento, conta 13.638 residenti. A oggi nel paese si contano 177 contagi mentre a Nembro sono 207 e in tutta la provincia di Bergamo sono 2378. Ad Alzano Lombardo i primi due ammalati di coronavirus sono stati scoperti lo scorso 23 febbraio, quando si sono rivelati positivi i tamponi su due pazienti ricoverati all’ospedale «Pesenti Fenaroli», un punto di riferimento sanitario per la Val Seriana. I due pazienti arrivavano da paesi vicini.  Gallera dice che lui ha chiesto la zona rossa e il governo non l’ha concessa. Il Corriere della Sera, in un articolo a firma di Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini, spiega che ciò che dice l’assessore non è vero:

La corrispondenza privata governo-Regione, e una nota interna a Palazzo Chigi, consentono di ricostruire quanto è avvenuto. E aiutano a capire come mai per istituire la zona rossa intorno a Codogno ci siano volute meno di 24 ore, con l’ordinanza firmata dal presidente della Lombardia Attilio Fontana e dal ministro dalla Sanità Roberto Speranza che blindava in entrata e in uscita dieci paesi del lodigiano, mentre per la provincia di Bergamo non sia bastata una settimana, a fronte di dati molto più allarmanti.

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Coronavirus: i numeri della provincia di Bergamo (Corriere della Sera, 6 aprile 2020)

A questo ritardo non è estraneo lo spirito di quel breve lasso di tempo. Ancora lo scorso 2 marzo l’assessore al Welfare lombardo, Giulio Gallera, esprimeva forti dubbi sull’utilità di una zona rossa. Ma sono molti i casi di esponenti politici che hanno adottato un doppio registro. Lo stesso Fontana mette la sua firma su richieste molto prudenti, mentre in pubblico usa spesso toni più interventisti. Meglio stare alle carte, quindi. I primi cinque report quotidiani che a partire dalla mattina del 21 febbraio la Regione Lombardia invia alla Protezione civile non fanno alcun cenno alla situazione della provincia di Bergamo. Per quasi una settimana, in calce al documento verranno indicati i focolai identificati fino a quel momento. Ne sono sempre citati quattro, tutti nel lodigiano. Eppure già il 27 febbraio appare evidente che in provincia di Bergamo qualcosa sta andando come peggio non potrebbe.

Settantadue nuovi casi di positività, diciannove dei quali, e tre decessi, fanno di Nembro il quarto Comune più colpito di Lombardia, alla pari con Casalpusterlengo, che insieme agli altri tre è nella zona rossa.

La Regione Lombardia e la Zona Rossa ad Alzano

Mentre la situazione si aggrava la Confindustria di Bergamo pubblica su Youtube il famoso video “Bergamo is running” dove si sostiene che l’industria lombarda non si ferma, mentre il primo cittadino Giorgio Gori, oggi in prima linea nell’attacco a Fontana e Gallera, lo rilancia. E così si arriva al 3 marzo:

Dal verbale di quel giorno del Comitato tecnico scientifico (Cts) che segue per il governo l’emergenza Covid-19: «Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Istituto superiore di Sanità i dati relativi ai due Comuni sopramenzionati, poi esaminati dal Cts. Al proposito sono stati sentiti al telefono l’assessore Giulio Gallera e il direttore generale Luigi Cajazzo di Regione Lombardia che confermano i dati (…)

Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della “Zona Rossa” al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi».

L’Unità di crisi della Lombardia invia una mail a Silvio Brusaferro, direttore dell’Istituto superiore di Sanità, con una mappa dettagliata della diffusione del virus in tutta la provincia di Bergamo. Quella sera, appaiono in Val Seriana alcune camionette dell’esercito. Sembra il preludio alla chiusura totale. Invece non succede niente. Qui Conte chiede a Brusaferro di approfondire i dati della provincia di Bergamo. L’ISS risponde chiedendo ancora la zona rossa. Il 7 marzo l’intera Lombardia diventa zona rossa, ma nel frattempo sono passati sei giorni:

Un’altra nota interna di palazzo Chigi sembra fare riferimento proprio a possibili dispute sul mancato provvedimento. «Quanto alle competenze e ai poteri della Regione Lombardia, si fa presente che le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti». E di seguito si citano i provvedimenti con misure ancora più restrittive varati di recente dalla giunta di Fontana. Un modo per dire che se la Lombardia pensava davvero che la zona rossa di Alzano e Nembro andasse creata prima, avrebbe potuto farlo in piena autonomia, così come l’hanno fatto Lazio, Basilicata, Emilia-Romagna, con ordinanze limitate al territorio di specifici comuni.

Il caso Bergamaschini

Infine c’è il caso Bergamaschini. Sul punto Gallera non risponde a Giletti, che del resto sbaglia il nome del medico. Della vicenda ha parlato Gad Lerner il 4 aprile su Repubblica:

Il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, ha subìto il 3 marzo un provvedimento di esonero perché colpevole di autorizzare l’uso delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Il giorno stesso del suo allontanamento forzato è stato fatto esplicito divieto a medici e paramedici di indossarle. Le ripetute diffide sindacali che parlano apertamente di “gestione sconsiderata dell’emergenza” hanno indotto la Procura di Milano ad aprire un’inchiesta “Modello 44” a carico di ignoti.

Ma il delegato Cgil della Rsu, Pietro La Grassa, non esita a indicare il nome e il cognome del direttore generale del Pat, Giuseppe Calicchio, prescelto dalla Regione Lombardia, in carica dal primo gennaio 2019. “Il filosofo”, lo chiama, perché in effetti quello è l’unico titolo universitario che Calicchio indica nel curriculum. Di lui è noto semmai il legame con l’assessore regionale alle Politiche sociali, Stefano Bolognini, cerchia ristretta di Salvini, al cui fianco Bolognini si trovava anche l’estate scorsa al Papeete di Milano Marittima.

luigi bergamaschini

Bergamaschini è rientrato in servizio solo il 25 marzo, dopo che la Statale ha minacciato di tutelarlo con un’azione legale.

Questa è la sua testimonianza: «A fine febbraio, quando si ha notizia dell’arrivo dell’epidemia, ci poniamo il problema di utilizzare le mascherine chirurgiche. Ci rispondono che non ce ne sono. Chi riesce se le procura, tanto più che il 28 febbraio il mio reparto viene blindato. E io ovviamente, ignorando i rimproveri — “mica sei tu il direttore sanitario” — ne autorizzo l’impiego». Si arriva così alla mattina del 3 marzo, quando ormai è scattata l’emergenza in tutta Italia.

Prosegue il racconto di Bergamaschini: «Vengo convocato e mi comunicano che il direttore generale Calicchio è montato su tutte le furie perché faccio indossare le mascherine. Replico: ma io mi limito a non impedire di adoperarle… A questo punto la dottoressa Rossella Velleca mi notifica che da domani dovrò restare a casa, anche a tutela della mia salute visto che ho 70 anni. Ma è una scusa che non regge, vista la mail inequivocabile che mi arriva: “Stante la Sua gestione, Lei è esonerato dall’attività generale”». Nei venti giorni di assenza forzata, il professor Bergamaschini apprende dei primi contagi importanti avvenuti nella struttura di Merate. Anche lì si è continuato a lavorare senza mascherine. Al Pat, trasferiscono altrove tutti i pazienti del suo reparto, il Pronto intervento geriatrico. Nel frattempo vengono ricoverati dall’esterno altri 12 pazienti non testati, per cui non è da escludersi che siano stati anch’essi veicoli del contagio.

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