La rivoluzione keynesiana del Fondo Monetario Internazionale

di Guido Iodice

Pubblicato il 2014-10-07

Come negli anni ’30, la crisi sta piano piano mutando il senso comune anche tra gli economisti. E persino in quello che, fino a poco tempo fa, era il tempio della fiducia incondizionata nel mercato, il FMI: «Gli investimenti pubblici sono pasti gratis»

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Quando c’è una crisi bisogna costruire un’autostrada o un ponte. Così la pensavamo un po’ tutti, sulla scorta dell’esperienza del New Deal, almeno fino a quando è diventata di moda la favola dell’austerità espansiva. Ma nel sesto anno di crisi, mentre anche i più recalcitranti incominciano a parlare di “stimoli fiscali”, è il Fondo Monetario Internazionale ad alzare ancora la posta: serve più spesa pubblica in infrastrutture per uscire dalla crisi. E conviene farle perché si pagano da sole.
 
DA KEYNES A FRIEDMAN….
«Bada alla disoccupazione e il bilancio baderà a se stesso». E ancora: «Quando il Consiglio della Contea decide la costruzione di case, il paese sarà più ricco anche se le case non garantiranno alcuna rendita. Se non si costruiscono quelle case, non avremo nulla da mostrare fatta eccezione per il maggior numero di uomini che ricevono un sussidio». E infine: «Non si potrà mai equilibrare il bilancio attraverso misure che riducono il reddito nazionale. Il Ministro delle Finanze non farebbe altro che inseguire la sua stessa coda. La sola speranza di equilibrare il bilancio nel lungo periodo sta nel riportare le cose nuovamente alla normalità, ed evitare così l’enorme aggravio che deriva dalla disoccupazione». Questi concetti, espressi 80 anni fa da John Maynard Keynes, sono stati per lungo tempo non solo alla base della teoria economica, ma anche parte del senso comune delle persone. Poi, negli anni ’70 del secolo scorso, un nuovo mainstream ha stabilito che “non esistono pasti gratis” (“There’s No Such Thing as a Free Lunch” era il titolo di un famoso saggio di Milton Friedman). L’idea di base è che se lo Stato spende, prima o poi qualcuno dovrà pagare quella spesa e gli interessi, tipicamente con maggiori tasse. L’aumento della spesa, inoltre, fa crescere i tassi di interesse, deprimendo l’economia privata che viene così “spiazzata” dalla spesa pubblica. Meglio quindi non fare nulla e lasciare che sia il mercato a badare a se stesso.
 
…E RITORNO
Come negli anni ’30, però, la crisi sta piano piano mutando il senso comune anche tra gli economisti. E persino in quello che, fino a poco tempo fa, era il tempio della fiducia incondizionata nel mercato, il Fondo Monetario Internazionale. Dopo aver fatto le pulci all’ipotesi dell’austerità espansiva avanzata da Alberto Alesina, ammenda per le previsioni sbagliate sull’austerità e aver concluso che anzi l’austerity fa aumentare il debito pubblico, nell’ultimo World Economic Outlook pubblicato pochi giorni fa, il FMI ha assestato un’altra picconata alla dottrina del rigore. I pasti gratis esistono e sono gli investimenti pubblici in infrastrutture. Larry Summers – non certo uno che possa essere annoverato tra gli scettici del mercato – ha scritto una magistrale sintesi di questa presa di posizione per il Financial Times. Spiega Summers:

Nella sua principale pubblicazione, il FMI sostiene aumenti sostanziali degli investimenti nelle infrastrutture pubbliche, e non solo negli Stati Uniti, ma in gran parte del mondo. Si afferma che quando la disoccupazione è alta, come in gran parte del mondo industrializzato, l’effetto di stimolo sarà maggiore se l’investimento è pagato tramite prestiti [in deficit, ndr], piuttosto che attraverso il taglio di altre spese o aumentando le tasse. In particolare, il FMI afferma che gli investimenti nelle infrastrutture correttamente progettati ridurranno piuttosto che aumentare gli oneri del debito pubblico. Gli investimenti nelle infrastrutture pubbliche possono pagarsi da soli.

Il meccanismo è quello classicamente keynesiano, ma Summers ci tiene a sottolineare che anche assumendo le peggiori delle ipotesi gli investimenti pubblici risultano utili:

Si consideri un investimento ipotetico in una nuova autostrada finanziata interamente con debito. Assumiamo che l’investimento produca un ritorno reale pari a solo il 6 per cento, anche questa un’ipotesi molto conservativa date le stime ampiamente accettata dei benefici degli investimenti pubblici. In questo caso, l’ammontare delle imposte annuali aggiustate per l’inflazione aumenterebbe del 1,5 per cento del capitale investito, dal momento che il governo incassa 25 centesimi su ogni dollaro di reddito supplementare. I costi dell’interesse reale, cioè i costi degli interessi meno l’inflazione, sono al di sotto dell’1 per cento negli Stati Uniti e in gran parte del mondo industrializzato su orizzonti fino a 30 anni. Quindi, gli investimenti nelle infrastrutture rendono effettivamente possibile ridurre gli oneri sulle generazioni future.

E tutto ciò senza contare – spiega ancora Summers – gli effetti indotti dall’investimento: più occupazione (e quindi più tasse incamerate dallo stato rispetto a quelle già contate nell’esempio precedente), aumento del capitale fisso e della capacità produttiva, eccetera. Alla fine dei conti il FMI fa una scoperta che farà drizzare i capelli ai liberisti di casa nostra: ogni dollaro investito in infrastrutture genera 3 dollari di reddito nazionale. Se per gli USA è molto semplice finanziarsi a basso costo, diverso è il caso dell’Europa. Ma anche qui, Summers e il FMI indicano una strada, attraverso la Banca europea degli Investimenti, un’idea che circola da tempo e che è anche nel programma del presidente incaricato della Commissione UE, Jean-Claude Juncker. Insomma, il FMI di Olivier Blanchard, capo economista dell’istituzione di Washington, pare impegnato in una lenta ma decisa riscoperta delle teorie economiche dell’ideatore del Fondo: John Maynard Keynes.

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