Opinioni

La favola somarista della banca centrale giapponese

Antonio Ripa 28/11/2018

ll mirabolante ritorno alla lira, con la banca centrale che stampa denaro all’infinito per finanziare la spesa pubblica, è, per i partiti populo-sovranisti italiani, l’equivalente della Terra Promessa di biblica memoria. E per abbindolare gli adepti, la canea somarista porta ad esempio il caso del Giappone che ne dimostrerebbe l’efficacia. Peccato che la ricetta non […]

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ll mirabolante ritorno alla lira, con la banca centrale che stampa denaro all’infinito per finanziare la spesa pubblica, è, per i partiti populo-sovranisti italiani, l’equivalente della Terra Promessa di biblica memoria. E per abbindolare gli adepti, la canea somarista porta ad esempio il caso del Giappone che ne dimostrerebbe l’efficacia.

Peccato che la ricetta non funzioni ed il Giappone sia in stagnazione dal 1991. Nel periodo 2000-2017 la crescita mondiale della ricchezza pro-capite è stata del 79,8% mentre quella del Giappone di appena il 17.8% come riportato nella sottostante tabella.

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Il fenomeno della stagnazione economica nel Paese del Sol Levante, innescato dallo scoppio nel 1991 di una “bolla economica” che iniziò a gonfiarsi nel 1986 sul mercato azionario ed immobiliare, è ben noto in tutto il mondo. Nel futile tentativo di stimolare la crescita, il Giappone da tempo incrementa la spesa pubblica grazie alla propria banca centrale che acquista le obbligazioni emesse tramite la creazione di nuova valuta (senza tuttavia operare sul mercato primario). Ma tale strategia ha fallito, e infatti nel terzo trimestre del 2018 la crescita è stata negativa. E per di più il governo nipponico grazie alla stampa di moneta ha evitato di implementare politiche di riforme che affrontassero le maggiori criticità. Il debito giapponese è esploso fino al 250% del PIL, con la conseguenza di far eclissare gli investitori stranieri. Oggi circa il 90% del debito pubblico giapponese è finanziato internamente tramite fondi pensione e similari. Vale ribadire che il sistema pensionistico in Giappone è per lo più a capitalizzazione e non a ripartizione come quello italiano. La spesa pensionistica oltre ad avere un’incidenza sul PIL molto più bassa di quella italiana (quasi la metà), dirotta la raccolta dei contributi sociali, verso quei fondi pensione attraverso cui viene finanziato parte del debito giapponese.

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Un’altra cruciale considerazione riguarda il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione, con il conseguente impatto negativo sul PIL. Nel 2005 il tasso di natalità in Giappone, ha toccato un picco negativo di 1,26 nascite per donna ed il tasso di dipendenza degli anziani (rapporto tra numero di persone nella fascia di età 65+ e popolazione in età lavorativa 15-64 anni), viaggia verso il 50% previsto nel 2050 (per l’Italia la stima è addirittura del 67.7%, Ageing Report 2018), con un conseguente calo del PIL pro-Capite di diversi punti.

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Quindi la situazione nel lungo periodo è destinata ad aggravarsi. La minore offerta di lavoro aumenterebbe poi il rapporto capitale/lavoro con un conseguente calo dei tassi di interesse (già estremamente bassi in Giappone, prossimi allo zero) determinato anche da minori consumi, con effetti diretti in termini di minore gettito fiscale. Ed a questo si deve aggiungere che il progressivo invecchiamento della popolazione provocherà un aumento di spesa pubblica medica e di assistenza agli anziani. Mentre altre nazioni hanno risolto simili trend accettando un flusso di immigrati per integrare nuova forza lavoro, l’Italia ed il Giappone sono gli unici paesi che rifiutano gli immigrati regolari. Infine, un altro elemento della crisi cronica giapponese, è una legislazione del lavoro caratterizzata da un vasto numero di contratti non regolari. Questo non consente ai cittadini giapponesi che peraltro hanno sempre nutrito un’alta propensione al risparmio) di nutrire una fiducia nel futuro che induca a maggiori consumi. Una nota di colore a tal proposito viene dagli stessi profeti delle virtù taumaturgiche del modello economico giapponese. La tesi della pseudo economia sovranista, sostiene che in realtà l’Italia è un paese virtuoso, ma frenato dai trattati europei e dall’euro. A sostegno adducono la somma di debito pubblico e debito privato presentandola come indicatore dello stato di salute di una nazione all’interno di un cruscotto comunitario. Tale tesi balzana sottende alla nozione che il governo possa disporre a piacimento della ricchezza privata, e quindi i politici possano espropriarla quando loro aggrada. Insomma apre la strada a patrimoniali, ergo prelievi forzosi più o meno gravosi, come del restoipotizzano numerosi esponenti di spicco dell’attuale governo. In conclusione, alla fine dell’itinerario somarista, costellato da fantasiose teorie di spacciatori di magiche ricette pseudo-economiche, si arriva sempre alle tasche dei risparmiatori onesti. Quelli che promettono l’eterna ricchezza nel paradiso della stampa illimitata della nuova lira con l’equazione fasulla “spesa + svalutazione = benessere”, spalancano la porta al destino venezuelano.

Leggi sull’argomento: Cina-Giappone, il nuovo «engagement» e la prima conseguenza

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