La morte in Brasile è una questione di classe

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2019-11-08

Nel 2018, ci dicono i dati della Mapa da Desigualdade, nel quartiere di Cidade Tiradentes si è morti in media all’età di 57 anni e 3 mesi, mentre in quel di Moema si è vissuto, in media, sino a 80 anni e 6 mesi. Tutto questo è accaduto, non solo all’interno di uno stesso Paese, ma addirittura all’interno della medesima città, San Paolo in Brasile

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Alcuni giorni fa, proprio quando il Presidente Jair Bolsonaro si apprestava a presentare alla Camera un disegno di legge per ridurre la spesa in sanità e educazione, è stato pubblicato dai valenti e rigorosi giornalisti investigativi di Agência Pública un prezioso reportagem riguardante durata e qualità della vita in alcune specifiche regioni della città di San Paolo. Sono dati brutali quelli pubblicati, i quali ci riportano al Brasile più profondo, quello che fatica a liberarsi dai fantasmi della sua storia, i quali rispondono al nome di esclusione sociale e razzismo. Viene così fuori che chi vive nel bairro di Cidade Tiradentes, estrema parte orientale di San Paolo, campa, in media, la bellezza di ventitré anni in meno di una persona che vive nella parte nobile della capitale paulista, come, per esempio, il bairro di Moema. Dati, quelli citati da Agência Pública, i quali sono parte dello studio dal titolo Mapa da Desigualdade 2019, pubblicati da Rede Nossa São Paulo e basati sui decessi registrati nel 2018 secondo le informazioni comunicate dalla Segreteria Municipale di Salute.

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La morte in Brasile è una questione di classe

A conferma di quanto la morte in Brasile sia, prima di tutto, una questione di classe, vi sono i dati riferiti alle morti legate a cause esterne come incidenti e morti violente. Nel succitato quartiere di Cidade Tiradentes, nel corso dell’anno passato, queste hanno raggiunto l’11%, diversamente da quanto accaduto nel bairro nobile di Moema, dove tali morti non arrivano al 5%. Simili differenze tra parti povere o miserabili della città di San Paolo e quartieri ricchi, o comunque abitati da una più che benestante borghesia, sono constatabili pressoché ovunque nella capitale, dove le persone che vivono in una condizione economica fragile campano in media venti anni meno di una persona, che ha una situazione economica almeno tranquilla. La prima causa di queste morti di classe sono patologie connesse all’apparato circolatorio, quando causa interna, o, se la causa è esterna, trattasi di morti violente o provocate da incidenti. Impressionante appare il dato di Marsilac, dove tali morti violente raggiungono il 18% dei decessi totali di questo bairro, ossia a dire che, nel 2018, quasi un quinto della popolazione di Marsilac è deceduta a causa di morte violenta o di un incidente. Nel 2018, ci dicono i dati della Mapa da Desigualdade, nel quartiere di Cidade Tiradentes si è morti in media all’età di 57 anni e 3 mesi, mentre in quel di Moema si è vissuto, in media, sino a 80 anni e 6 mesi.

Tutto questo è accaduto, non solo all’interno di uno stesso Paese, ma addirittura all’interno della medesima città, per quanto una megalopoli come San Paolo. I dati, tuttavia, fanno emergere anche un altro elemento, non sorprendentemente, connesso al primo relativo a ciò che siamo venuti definendo come ‘questione di classe’. Come sempre succede a queste latitudini, il piano sociale si intreccia col piano razziale, facendo emergere una durata della vita minore in quei quartieri dove maggiore è la presenza della popolazione nera. In altri termini, l’età di morte nella capitale è strettamente legata alla condizione economica dell’individuo e al colore della sua pelle. Il succitato bairro di Moema, dove l’aspettativa di vita supera gli 80 anni, è, manco a dirlo, il quartiere “più bianco” di tutta San Paolo. Diversamente, nel bairro di Cidade Tiradentes, quello dove si campa meno, il 56,1% di coloro che vi abitano sono afrodiscendenti. Più in generale, dai dati emerge che la maggioranza della popolazione nera vive nei quartieri della periferia dove, mediamente, si muore prima dei 60 anni di età, al contrario di quel che accade nei quartieri “bianchi e centrali” della capitale dove, in media, l’aspettativa di vita è al di sopra dei 78 anni.

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Il popolo non ha pane? Togliamogli anche l’assistenza sanitaria

Maria Auxiliadora Chaves da Silva, assistente sociale, attivista femminista e che da 23 anni vive nel quartiere di Cidade Tiradentes spiega che tali dati sono comprensibili a partire, prima di tutto, dalle precarie condizioni economiche in cui gli abitanti di tali bairros di San Paolo vivono: “In periferia – spiega – spesso manca il lavoro e quando c’è si tratta di lavoro precario, ciò che ovviamente non può dare accesso a un diritto basico come quello di una alimentazione di buona qualità. Oltre a questo – continua Maria – raramente le persone di Cidade Tiradentes hanno completato gli studi, la maggior parte ha concluso solo la scuola dell’obbligo e qualcuno nemmeno quella o proprio non ci è mai andato a scuola. Le persone, qui, vivono per pagare le spese basiche e non avanza niente per altre attività”. Ancora più diretto, nella sua analisi, è Paulo Saldiva, medico e professore della Facoltà di Medicina della USP di San Paolo, il quale, senza mezzi termini, dichiara che nei quartieri poveri della capitale si muore di più a causa delle difficoltà delle persone con bassi salari ad avere accesso alle più elementari cure mediche. Saldiva stigmatizza come la difficoltà del trasporto dei pazienti e la mancanza di ospedali e pronto soccorso nelle periferie si ripercuotano sulla incidenza delle morti in questi luoghi: “Circa il 35% delle persone, che muoiono di complicazioni cardiovascolari, potrebbero essere salvate, se ricevessero cure mediche nelle prime due ore”. Darcy Ribeiro, immenso intellettuale e politico brasiliano, colui che, per capirsi, durante il primo governo di Leonel Brizola a Rio de Janeiro (1983-1987), come vice-governatore, creò e diresse l’avvio dei cosiddetti Centri Integrati di Insegnamento Pubblico (CIEP) – progetto pedagogico per mezzo del quale si intendeva, tramite attività ricreative e culturali, oltre all’insegnamento formale, dare assistenza integrale a bambini e ragazzini in condizioni di indigenza – con riferimento al Brasile, era solito osservare come questo fosse stato l’ultimo Paese ad abolire la schiavitù e come questo rappresenti un elemento di “intrinseca malvagità nella sua eredità, che rende la nostra classe dirigente malata di disuguaglianza e disprezzo”.

Non può dunque sorprendere, proprio alla luce di queste icastiche parole, che parte della politica brasiliana vedrebbe con favore la drastica riduzione del SUS, il sistema di assistenza universale di salute, che, pur funzionando in maniera assai limitata in diverse zone del Paese, ciononostante assicura un minimo di cure sanitarie alla popolazione economicamente più fragile. Né può sorprendere come questa drastica riduzione del SUS non sarebbe un processo di razionalizzazione o di parziale trasferimento di risorse a favore, per esempio, di politiche di prevenzione, di cui il Brasile avrebbe un disperato bisogno, ma semplicemente una nuova appendice al già corposo elenco delle varie forme di esclusione sociale, in cui, ogni giorno di più, questo Paese sembra affondare. Né può sorprendere, sempre tenendo a mente le succitate parole di Darcy Ribeiro, la vergognosa e frettolosa chiusura, o, per meglio dire, “brasilianizzazione”, a causa della cacciata dei medici cubani, da parte del governo in carica, di un programma sociale di enorme rilevanza a queste latitudini come Mais Médicos, il cui risultato, ad oggi, è consistito nel pregiudicare ulteriormente la vita di tutti quei brasiliani che vivono lontano dalle città, in particolare gli indios delle varie riserve indigene, le popolazioni ribeirinhas dell’Amazzonia o le varie comunità quilombolas sparse nel Paese, abbandonati senza alcuna assistenza sanitaria. Descaso è la parola portoghese impiegata da Darcy Ribeiro. L’ho tradotta con ‘disprezzo’, ma si potrebbe tradurre anche con ‘trascuratezza’ e, appunto, ‘abbandono’.

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