Fact checking

Perché l'embargo delle armi non fermerà l'ISIS

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2015-11-23

C’è chi dice che Arabia Saudita e ISIS sono la stessa cosa e qualcuno propone un embargo nei confronti dell’Arabia Saudita per fermare l’avanzata dello Stato Islamico. Perché non funzionerà e cosa si può fare

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A parole tutti vogliono fermare l’ISIS, russi e francesi ci provano con le bombe però quasi nessuno sembra intenzionato, per ora, ad un impegno maggiore ovvero ad un intervento via terra. C’è chi propone fantomatici embarghi nei confronti dell’ISIS, in modo da tagliare la catena di rifornimenti. Il primo problema di questa strategia è che lo Stato Islamico non è uno stato vero e proprio. Certo gli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi controllano considerevoli porzioni di territorio in Siria e in Iraq ma questo non basta per poter imporre sanzioni che possano sortire un qualche effetto. Senza contare che ci sono esempi storici di stati – Cuba, Iran, Corea del Nord e Iraq prima dell’ultimo intervento militare USA – che sono sopravvissuti per decenni nonostante embarghi e sanzioni economiche. Qualcuno si ricorda delle sanzioni inflitte alla Russia per l’intervento in Ucraina? A quanto pare non hanno impedito a Putin di andare bombardare la Siria.
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Perché l’embargo non potrà funzionare

Ecco quindi la soluzione, colpire l’Arabia Saudita e gli altri paesi (Qatar, Kuwait e Turchia) che finanziano il terrorismo dell’ISIS. Ci sono però, strano a dirsi, alcune questioni che sono più complicate di come le si racconta. Innanzitutto non ci sono per ora prove che l’Arabia Saudita o gli altri paesi della lista (che sono sostanzialmente i paesi più ricchi e influenti della regione) stiano dando armi all’ISIS o inviando denaro per sostenere il Califfato. Ci sono invece prove che alcune delle forniture belliche iraniane (strano che l’Iran non sia nella lista vero?) destinate alle forze fedeli ad Assad siano finite in mano agli uomini che combattono per Daesh. Armi che l’Iran ha inviato, guardacaso, proprio mentre era sotto embargo da parte di quasi tutti i paesi occidentali. Altri mezzi militari (questa volta di provenienza americana) l’ISIS li ha presi dagli arsenali dell’esercito iracheno. I terroristi di Parigi invece, come spiega questo pezzo di Internazionale, le armi le hanno prese sul mercato nero in Belgio, non in Siria o in Arabia Saudita. E la provenienza di quelle armi sembrano essere i paesi della ex-Jugoslavia. Rotta balcanica quindi, non araba. Si può dire quindi che sia l’Iran che gli USA hanno indirettamente fornito armi all’ISIS, però nessuno ha proposto sanzioni nei loro confronti. A rendere più complicata la faccenda è il fatto che, al momento, l’ISIS sembra poter fare affidamento più sullo sfruttamento dei territori occupati che sulle donazioni di ricchi sostenitori stranieri che caratterizzavano la strategia economico-finanziara di Al Qaida (la cosiddetta Gold Chain). Ci sono prove che tra le maggiori fonti di finanziamento dell’ISIS ci siano in primo luogo rapine, estorsioni e taglieggiamenti sulle persone e le attività economiche che vivono nei territori occupati. Solo in seconda posizione troviamo la vendita di greggio che non è venduto in Arabia Saudita ma, sembra, in Turchia, cosa se ne fanno infatti due tra i principali produttori di petrolio del mondo dell’oro nero dell’ISIS?

Davvero l’Arabia Saudita è come l’ISIS?

Due giorni fa il New York Times ha pubblicato questo pezzo d’opinione dello scrittore e giornalista algerino Kamel Daoud nel quale si spiega che l’Arabia Saudita è un’ISIS che ce l’ha fatta (Saudi Arabia, an ISIS That Has Made It). Il succo del discorso è che certi aspetti brutali degli uomini del Califfato si ritrovano, istituzionalizzati, anche nell’ordinamento del regno saudita. Il motivo è che sia i sauditi che l’ISIS sono sostenitori del wahhabismo, un movimento religioso sunnita che mira all’instaurazione – guarda caso – di un califfato islamico. Daoud non parla tanto di finanziamenti ma sono l’epicentro della diffusione di una cultura islamista che si fa promotrice, tramite trasmissioni televisive diffuse in tutto il mondo musulmano, della lotta agli infedeli e di una sorta di revanscismo arabo. Insomma l’Arabia Saudita è la faccia pulita di quella stessa corrente religiosa dalla quale Al Baghdadi ha tratto ispirazione per il suo Califfato Nero. È questo uno dei motivi per cui l’Arabia Saudita viene iscritta d’ufficio nella lista dei paesi che aiutano l’ISIS. Gli altri sono il fatto di non essersi voluta impegnare di più, dopo una fase iniziale di bombardamenti entusiastici, nella lotta contro Daesh. L’Arabia Saudita ha però altri problemi, ad esempio limitare la diffusione della sfera d’influenza sciiita nell’area. Per questo motivo è impegnata in una campagna militare in Yemen e per questo preferisce stare alla finestra a guardare quello che sta succedendo in Siria. Bashar Al Assad infatti è alawita (a sua volta una corrente religiosa dello sciismo). Così come sono sciiti gli iraniani. Che pur non condividendo la visione religiosa wahabita non sono da meno in fatto di atrocità e violazioni dei diritti umani. L’Iran però ci è più simpatico, fa affari con Putin (e la Cina) e non con quegli imperialisti degli Stati Uniti (e ha solidi legami anche con il nostro Paese). Tra i vari motivi che impediscono – di fatto – una qualsiasi forma di sanzione nei confronti dell’Arabia Saudita non dobbiamo infatti dimenticare un aspetto non propriamente secondario: il Regno saudita è il principale e più duraturo alleato degli USA nella penisola arabica. Non parliamo solo di rapporti commerciali (uno scambio di petrolio e armamenti) ma anche una collaborazione a livello di intelligence. Collaborazione sulla cui effettiva utilità si potrebbe ragionevolmente dubitare ma è davvero irrealistico pensare che gli USA possano scaricare – dopo 70 anni di rapporti d’amicizia – i sauditi. Chi si lamenta del fatto che l’Occidente si è intromesso in un conflitto tra sciiti e sunniti non può pensare che sanzionare una delle due parti e aiutare l’altra possa risolvere il problema. Che dire allora della Turchia (che ricordiamo ha solo il più grande esercito della NATO) che non ha mosso un dito quando si è trattato di aiutare i cittadini di Kobane durante l’assedio dell’ISIS e quando può fa di tutto per ostacolare le azioni delle milizie curde dell YPG? Anche qui una possibile spiegazione è che la Turchia ha un interesse strategico nel cercare di limitare l’estendersi del potere dei curdi. Non dimentichiamo che dopo la caduta di Saddam Hussein gli USA hanno affidato ai curdi il controllo della regione settentrionale dell’Iraq, ricca di giacimenti petroliferi e che da sempre la minoranza curda rappresenta una spina nel fianco per la repubblica fondata da Kemal Ataturk. Ed avere due aree sotto il controllo curdo alle porte di casa non è certo una cosa piacevole per Erdogan.

All’interno di questo complesso gioco di alleanze strategiche dove i “nostri alleati” non sono così lindi e puliti come li vorremmo (ma anche qui si potrebbe aprire un capitolo infinito sulla storia delle alleanze militari scomode ma vincenti) come colpire e limitare l’influenza di un’organizzazione terroristica che è sì un non-stato ma che al tempo stesso controlla vaste porzioni di territorio? Una visione diversa l’ha proposta Benedetta Berti in un TED Talk ad agosto. Invece che creare ulteriore instabilità nella regione è necessario iniziare a capire che l’ISIS si pone come una forza “di governo” su un territorio anche in virtù dell’indebolimento e della progressiva scomparsa del governo siriano. Secondo la Berti l’ISIS ha occupato non solo i territori ma anche gli spazi istituzionali, garantendo alla popolazione una certa forma di governo e amministrazione:

This matters for governments, because to counter these groups, they will have to invest more in non-military tools. Filling that governance gap has to be at the center of any sustainable approach. This also matters very much for peacemaking and peacebuilding. If we better understand armed groups, we will better know what incentives to offer to encourage the transition from violence to nonviolence. So in this new contest between states and non-states, military power can win some battles, but it will not give us peace nor stability. To achieve these objectives, what we need is a long-term investment in filling that security gap, in filling that governance gap that allowed these groups to thrive in the first place.

Sappiamo che in realtà queste intenzioni non si traducono in molte azioni concrete: buona parte del budget è destinato al mantenimento dell’apparato militare e davvero poche risorse vengono usate a favore della popolazione (scuole, strutture sanitarie, etc). Ma non è detto che le cose rimangano così, certo ora l’ISIS terrorizza la popolazione ma prima o poi avrà bisogno di una maggiore e più “entusiastica” collaborazione con i civili delle aree occupate. Cosa potrebbe succedere quando gli uomini del Califfato saranno gli unici (in virtù dell’embargo) a poter garantire ai civili una qualche forma di sostentamento?
 

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