Giavazzi, Tabellini, Zingales: all'improvviso tutti keynesiani

di Guido Iodice

Pubblicato il 2014-09-06

Nelle ultime settimane si moltiplicano le conversioni sulla via di Cambridge. Da Francesco Giavazzi e Guido Tabellini a Riccardo Puglisi, passando per Luigi Zingales, ormai il fallimento dell’austerità costringe gli economisti ad una sterzata. E va bene così

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«We are all Keynesian now» (siamo tutti keynesiani adesso). La frase attribuita dal Time a Milton Friedman è tornata ricorrente a partire dalla crisi del 2008, quando, volenti o nolenti, economisti e politici liberisti hanno dovuto accettare l’idea che lo Stato tornasse a ficcare il naso nell’economia. Con la dottrina dell’austerità espansiva concepita da Alberto Alesina e adottata come politica economica ufficiale dall’Unione europea, le cose sembravano tornate al loro posto. Ma ora che il fallimento di quella teoria è troppo evidente per essere nascosto, nuove conversioni si sono affacciate nel dibattito economico e politico.
 
GIAVAZZI E TABELLINI
«La sfida principale che ha di fronte l’Eurozona è una mancanza di domanda aggregata. Questo è molto più importante di squilibri interni o della mancanza di competitività in periferia». Così si sono espressi Francesco Giavazzi e Guido Tabellini, i due top economists della Bocconi, in un articolo sul sito VoxEU, la versione europea de lavoce.info. Secondo i due cattedratici, le politiche monetarie messe in campo dalla Banca Centrale Europea non bastano: occorre tagliare le tasse per far ripartire la domanda, aumentare i deficit e – udite udite – finanziare il disavanzo stampando moneta. L’inflazione non è un problema viste le spinte deflazionistiche degli ultimi mesi. Altro che riforme strutturali, altro che rigore. Certo, Giavazzi e Tabellini aggiungono che poi, un giorno, bisognerà ripagare il debito con tagli alla spesa, ma intanto la soluzione è il deficit. Eppure Giavazzi, con Alberto Alesina, aveva sostenuto che il rigore di Monti (che di tasse ne ha aumentate un bel po’) ci aveva salvato dalla catastrofe:

Senza austerità, in Italia come in altri Paesi europei, non vi sarebbe stata più crescita ma spread alle stelle, una probabile ristrutturazione del debito, scricchiolii nei bilanci delle banche: insomma, il rischio di un altro 2008. (Corriere della Sera, 22 gennaio 2013)

E Guido Tabellini, sul Sole 24 Ore del 6 novembre 2012, affermava che occorresse «rassicurare i mercati che il rigore di bilancio resterà una priorità inderogabile anche nella prossima legislatura» e che

Uno dei principali risultati del governo Monti è stato quello di dare priorità e credibilità al rispetto del rigore di bilancio. Perché questa credibilità sopravviva anche in futuro, occorre modificare le istituzioni, e non solo superficialmente.

giavazzi zingales keynes
LUIGI “MAYNARD” ZINGALES
Il cambio di rotta più sorprendete e per certi versi più radicale è quello di Luigi Zingales, notissimo economista della scuola di Chicago. Ecco cosa scrive sull’Espresso del 28 agosto:

Aprendo la porta per un possibile compromesso politico, Draghi ha detto che i vincoli di bilancio potrebbero essere allentati per quei paesi dell’Europa del Sud che aumentassero la flessibilità del lavoro. […] Per alcuni è solo sinonimo di un taglio dei salari. […] Io non penso che sia quello che Draghi ha in mente. Proprio a Jackson Hole, il governatore della Banca Centrale giapponese ha auspicato l’esatto opposto. Lamentando l’eccesso di flessibilità al ribasso dei salari giapponesi, ha chiesto una mano visibile che aiuti ad aumentare i salari. Senza un aumento dei salari, la domanda interna non può crescere, le imprese di conseguenza non sentono il bisogno di investire, e il paese stenta ad uscire dalla deflazione.
Non solo puntare alla riduzione dei salari può influire negativamente sulla domanda aggregata, ma, paradossalmente, ha un effetto ancora più devastante sulla flessibilità vera, ovvero la capacità di riqualificare e riallocare la forza lavoro.

Il ragionamento del governatore della Bank of Japan, sposato da Zingales, è esattamente quello di Keynes. Se da un lato il taglio dei salari abbassa i costi, dall’altra però riduce anche la domanda aggregata e quindi gli effetti su produzione e occupazione sono (se si è fortunati) nulli, ma possono persino essere negativi se si innesca una spirale deflazionistica. La teoria dominante, che ritroviamo quasi in ogni libro di economia, spiega al contrario che la disoccupazione è un effetto del mancato aggiustamento verso il basso dei salari e che essa non esisterebbe se i lavoratori accettassero la flessibilità salariale.
Nel resto dell’articolo Zingales svolge una filippica contro i sindacati contraddittoria con questa osservazione. Proprio guardando l’esempio giapponese, infatti, si può notare che la deflazione è almeno in parte causata dall’accondiscendenza dei sindacati nei confronti degli interessi imprenditoriali. Il premier nipponico Shinzo Abe, che in gennaio aveva annunciato l’aumento dei salari, oggi deve prendere atto che i sindacati non riescono ad ottenerli perché troppo poco conflittuali.
 
CORRADO PASSERA E RICCARDO PUGLISI
Riccardo Puglisi, economista e candidato per Scelta Civica di Mario Monti, è una superstar su Twitter: oltre diecimila follower e 83mila tweet. Dopo l’ingloriosa fine della lista montiana, si è iscritto a Italia Unica, il nuovo progetto politico di Corrado Passera per una destra finalmente presentabile. Ed è diventato anche lui keynesiano:
puglisi-keynes-investimenti
Puglisi invoca investimenti pubblici (come Keynes) addirittura “massicci” (come Keynes) e finanziati in deficit tramite l’emissione di titoli (eurobond) e non con le tasse (come Keynes). Nella gara a chi è più keynesiano Corrado Passera non è da meno:
Schermata da 2014-09-06 17:12:15
«Draghi non basta» spiega il banchiere. Servono «1000 miliardi di investimenti», anche per lui in deficit, come per Puglisi. Tradotto: la politica monetaria non è sufficiente, serve anche quella fiscale ed in particolare la spesa pubblica in investimenti. Una conclusione che più keynesiana non si può.
 
FOLGORATI SULLA VIA DI CAMBRIDGE
Tutte queste folgorazioni sulla via di Cambridge potrebbero sembrare sospette. Ma che si tratti di salvare la faccia o di sincere prese d’atto degli errori sin qui commessi, al momento poco importa. L’importante è che l’economia del buon senso, come l’ha chiamata Paul Krugman, torni a regnare tra gli economisti e – si spera – tramite questi arrivi alle classi dirigenti. Del resto, come diceva Keynes, «le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda» e gli uomini della pratica (imprenditori, banchieri, politici) sono «solitamente schiavi di qualche economista defunto». Per uscire dalla crisi c’è da sperare che d’ora in poi l’economista defunto sia proprio Keynes.

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