Lo Shogun di Tokyo a Pechino

di Claudio Landi

Pubblicato il 2018-09-18

Shinzo Abe, il moderno ‘shogun’, leader della terza economia capitalistica del mondo, dovrebbe arrivare a Pechino, secondo la stampa cinese, il 23 ottobre prossimo. I temi da discutere con la Cina

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Lo ‘shogun’ si prepara alla missione a Pechino. Una missione storica. Lo Shogun, nel sistema di governo del Sol levante, prima della Restaurazione Meiji, era il capo assoluto del governo del Bakufu, mentre l’Imperatore aveva un ruolo cerimoniale di continuità dinastica e culturale dell’Impero. Lo Shogun aveva un potere assoluto. Oggi il moderno ‘shogun’, con un potere rilevante ma tuttaltro che assoluto, è il primo ministro giapponese Shinzo Abe, che si prepara ad avere, (se vincerà le difficili primarie interne del suo partito, il Partito liberaldemocratico), un terzo mandato come presidente del PLD e quindi come premier.

Lo Shogun di Tokyo a Pechino

Shinzo Abe, il moderno ‘shogun’, leader della terza economia capitalistica del mondo, dovrebbe arrivare a Pechino, secondo la stampa cinese, il 23 ottobre prossimo. Quindi tra pochissime settimane. Il 23 ottobre è una data storica per l’Asia orientale. Il 23 ottobre del 1978, quindi 40 anni or sono, precisi precisi, Cina e Giappone rendevano effettivo il ‘Trattato di Pace ed Amicizia’ firmato il precedente 12 agosto. Shinzo Abe quindi si prepara, se condo le fonti cinesi, a sbarcare nella capitale della Repubblica Popolare, in un momento ‘storico’, l’anniversario del più importante accordo diplomatico fra Cina e Giappone moderni. Una data simbolica, la cui importanza politica non può essere sottovalutata da nessuno: Cina e Giappone hanno da sempre dovuto fare i conti con la memoria storica, una memoria alquanto dolorosa. Il Giappone, nella prima metà del Novecento, infatti, si è reso responsabile di guerre e di campagne militare di aggressione che non risparmiarono nè popolazioni civili nè economie locali. Nel nome della ‘comune sfera di co-prosperità est-asiatica’, l’Impero del Trono del Crisantemo, prima nazione asiatica ad aver attuato un grande processo di modernizzazione economica e politica, cercò di assoggettare l’intera Asia orientale, dalla Manciuria cinese fino all’Indocina, ai propri interessi, cercando di costruire il primo esempio storico di blocco asiatico autonomo sotto la sua egemonia di ferro. Parte della Cina, assieme alla Corea, a Taiwan, ma anche alle nazioni del sud est asiatico, rimasero sotto il tallone dell’esercito imperiale per lungo tempo. Quel disegno imperiale produsse modernità in tutta l’Asia, fu al centro anche di importanti movimenti anti-colonialisti, ma si fondò su stragi senza fine, come il massacro di Nanchino.

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Un primo ministro giapponese che giunge in Cina in una occasione di pace come la firma del Trattato di Amicizia costituisce inevitabilmente un fatto politico di prima grandezza: un fatto al quale le diplomazie di Cina e di Giappone stanno peraltro lavorando da mesi. Un fatto che appare preceduto da un calendario di incontri e vertici senza precedenti fra esponenti di altissimo rango dei due paesi, come il ministro delle finanze del Giappone Taro Aso recentemente a Pechino. La visita di Shinzo Abe, se davvero si terrà secondo quanto scrivono le fonti cinesi, diventa ancora più importante politicamente se si guarda proprio in queste ore alla stampa giapponese e a che cosa dicono importanti esponenti del governo Abe, circa la nuova ondata di dazi e tariffe preannunciata dal presidente americano Donald Trump contro la Cina in queste ore: tariffe per merci cinesi di importazione per gli Usa di un valore di circa 200 miliardi di dollari. ‘Una decisione estremamente deplorevole’, l’ha definita un ministro di Shinzo Abe. ‘Le maggiori economie del mondo devono mantenere un dialogo appropriato’, ha diplomaticamente chiosato il ministro delle finanze Aso. I giapponesi chiedono con urgenza una soluzione alla guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti e proprio la eventuale missione cinese del premier, e comunque le tantissime missioni di incontro fra i massimi dirigenti dei due paesi (quella del 29 agosto ad esempio, del segretario generale del Partito liberaldemocratico giapponese Toshihiro Nikai, che a Pechino ha incontrato il potente vicepresidente della Repubblica Popolare Wang Qishan, ad esempio) mostrano tutto il ‘disappunto’ del Giappone verso gli approcci neo-protezionistici e ‘oscillanti’ dell’amministrazione Trump.

La nuova via della seta

Il punto interessante di tutta la vicenda comunque, a parte le pur importantissime questioni simboliche, è costituito dalla ciccia che c’è sul tavolo dell’eventuale missione dello ‘shogun’ a Pechino: la partecipazione concreta del Giappone ai progetti della ‘Nuova via della seta’, sponsorizzata dalla Cina, la ‘Belt and Road Initiative’. Qui si parla di trilioni di dollari in strade, porti, centrali energetiche, infrastrutture per telecomunicazioni, ferrovie ad alta velocità che potrebbero arrivare alle economie di Asia, Africa e financo Europa grazie alla cooperazione fra Cina e Giappone. Questa è la vera posta in gioco nella ripresa delle relazioni politiche fra i due grandi attori capitalistici dell’Asia: un enorme progetto di investimenti gestito e sponsorizzato da Pechino e da Tokyo, ma che riguarda interi continenti, e che potrebbe prendere forma definitivamente nei prossimi mesi. Il condizionale è obbligatorio, ma si può comprenderne l’importanza, politica, economica e strategica. In questi mesi si stanno confrontando in Asia e nel Pacifico, due approcci diversi, quello cinese della ‘Nuova Via della seta’, economico ma anche geopolitico, e quello americano cd ‘Indo-Pacifico’, essenzialmente costituito da limitati accordi di cooperazione in ambito della difesa (che ha avuto un passaggio importante in un recentissimo accordo fra India e Stati Uniti). I paesi dell’’Asia marittima’, di cui il Giappone è a tutti gli effetti il ‘capofila’, stanno giocando su entrambi i tavoli, cinese ed americano. Il progetto della ‘Belt and Road Initiative’ è stato messo in piedi e portato avanti, finora, dalla Cina. Essa è stata lanciata dal 2013, dal Presidente cinese Xi Jinping, come centro della rinnovata ‘strategia cinese’ per una ‘ascesa pienamente pacifica’ (come a Pechino viene definita l’ascesa economica e strategica del Dragone).


Finora questo approccio della Nuova Via della seta, pur avendo conquistato il sostegno o l’adesione di una sessantina di paesi, e pur avendo portato alla creazione di nuove istituzioni finanziarie, (AIIB-Asian Infrastructure Investment Bank e il Silk Road Fund), ha avuto al centro sempre e solamente la Cina. I corridoi infrastrutturali che comprende la Nuova via della seta sono tantissimi: il New Eurasian Land Bridge (fra Cina occidentale e Russia europea), il China-Mongolia-Russia Corridor, il China-IndoChina Peninsula Corridor che dovrebbe arrivare fino a Singapore, o il China-Pakistan Economic Corridor e tanti altri, senza dimenticare la Via della seta marittima, i progetti in Africa orientale e infine la nuova rotta artica del Polo Nord. Secondo alcune stime, questi progetti infrastrutturali alla fine potrebbero arrivare a costare la bellezza di 8 trilioni di dollari. Una somma enorme. Ma come dimostrano, ma è solo uno dei tanti esempi, le recentissime decisioni di cancellazione di progetti riguardanti la Malaysia da parte del nuovo primo ministro malaysiano, da poco recatosi a Pechino, Mahathir Mohamed, le cose nella Nuova Via della seta non sono tutte ‘rosa e fiori’. Deficit di trasparenza, episodi di corruzione e crescita dei debiti dei paesi interessati, sono punti critici al centro delle attenzioni internazionali ad alcuni aspetti della Nuova Via della seta made in Cina. Sia come sia, ed alcune di queste contestazioni sono serissime, sta di fatto che siamo di fronte ad un gigantesco progetto di investimenti che finora è stato totalmente gestito dalla Cina.

La partita mondiale

Il Giappone, ove davvero decidesse di partire in grande stile assieme alla Cina in questo programma, gli potrebbe dare una forma nuova, una forma che potremmo definire, senza esagerare, ‘storica’ più avanzata e più consona alle economie evolute: sia per l’imponenza delle risorse che potrebbero essere messe in campo (molti trilioni di dollari, come abbiamo accennato!), sia per un nuovo e più avanzato carattere delle istituzioni che ne dovrebbero gestire l’implementazione. Sul tavolo imbandito di Xi Jinping e di Shinzo Abe a Pechino nel prossimo ottobre, se davvero il premier giapponese arrivasse in Cina, ci sarà tutto questo. Quando vedremo lo ‘shogun’ in Cina ricordiamocelo bene: quelle potrebbero davvero essere le fotografie e i video del primo atto concreto di una nuova ‘egemonia’ mondiale; potrebbe davvero prendere vita la ‘sfera di co-prosperità’ est-asiatica, seppure con modalità molto molto diverse da quelle immaginate e preparate dai militaristi nipponici del Novecento. Non dobbiamo infatti dimenticare che Cina e Giappone, che ora hanno intenzione, sembrerebbe, di cooperare, hanno anche una fortissima rivalità strategica. ‘Co-prosperità’ forse ma competitiva! Lo spettacolo, politico, per il 21° secolo sarebbe comunque assicurato! Sajonara!

(Foto da Instagram)

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